Non ci accorgeremo della fine che ci spetta
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La visione catastrofica del futuro ha iniziato ad esercitare una certa suggestione più sull’opinione pubblica che sui nostri modesti governanti i quali, anzi, per la risoluzione di un problema così vitale, preferiscono mettersi a traino di un’adolescente svedese che, invece di andare a scuola, si diverte ad attribuire il cambiamento climatico ai guasti ambientali e non, com’è scientificamente provato, ai ciclici mutamenti del sole. Non che la terra stia messa bene, ma questo è complementare al problema principale
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Alla luce di ciò che è accaduto nell’ultimo quarto di secolo dobbiamo ammettere che troppo precipitosamente abiurammo la cosiddetta prima repubblica adducendo, tra le tante ragioni dell’abiura, il fatto che essa fosse governata dai professionisti della politica, ma su quest’ultimo punto torneremo più avanti. In realtà quella nostra fu soltanto una rimozione collettiva allorché ci rifiutammo – perché ce ne vergognavamo – di ammettere con noi stessi che proprio da “quella” repubblica eravamo stati figliati, allevati, eticamente plasmati e politicamente rifiniti. Fu così che, come coloro che hanno qualche pubblico peccato da mondare, diventammo rivoluzionari, talmente rivoluzionari e (poco) intenzionati a diventare probi e onesti cittadini che scegliemmo nientepopodimeno Silvio Berlusconi come interprete della nostra palingenesi politica e morale.
Questa premessa per definire la cornice morale entro la quale nel nostro Paese avvenne il passaggio dalla prima alla seconda repubblica, in un momento che probabilmente la storia ricorderà come il punto di partenza della catastrofe materiale e politica che ci attende appena dietro l’angolo, qualsiasi cosa noi si possa fare oggi per tentare di fermarla. Peraltro, miopi e accomodanti come siamo sempre stati, non ci rendemmo conto allora che i politici della prima repubblica erano sì marioli, ma capaci di compiere degli “atti politici” come tener testa agli Stati Uniti, fare una legge, redigere un trattato, definire delle alleanze o – cosa impensabile per le facce di tolla dei politiconzoli d’oggidì! – capaci di dimettersi dal loro incarico sotto la spinta del pubblico sdegno.
Ed è stato così che, in venticinque anni, siamo passati da Berlusconi a Renzi, da Grillo a Di Maio, da Conte a Salvini, da Napolitano a Mattarella, ed a tutta la loro corte dei miracoli a Roma sedente, gente convinta che un Paese di sessanta milioni di abitanti, oppresso da secolari inefficienze ed ingiustizie, possa essere governato mediante una politica 2.0; gente convinta che per moralizzare la vita pubblica non sia necessario un governo forte e autorevole ma che basti fare promesse irrealizzabili, come il milione di posti di lavoro, o sopprimere tutte quelle attività capaci di creare tangenti, e cioè la produzione industriale.
A questo punto è iniziato il conto alla rovescia della nostra fine come Paese produttivo, una fine che forse i professionisti della politica della vituperata prima repubblica avrebbero tentato in qualche maniera di contrastare avendone le capacità, a differenza dei senza arte e né parte che ultimamente abbiamo eletto per governarci confidando nella loro dirompente carica rivoluzionaria per giro voltare il sistema, una dirompenza che alla fine si è rivelata flebile come una scoreggina di neonato, mentre l’ansimante locomotiva Italia è giunta all’ultima fermata prima della stazione dell’irreversibile regresso. Eppure tutto era stato scritto, tutto era stato previsto per armonizzare le diverse esigenze del nostro sviluppo in relazione all’ambiente e alla possibilità di creare cicli produttivi duraturi, compatibili con l’ambiente ma soprattutto capaci di sostenere logisticamente l’Italia per ancora lungo tempo.
Nel corso degli anni Settanta del Novecento, il Massachusetts Institute of Technology – MIT, una delle più prestigiose università di ricerca al mondo in fatto di tecnologica e di sviluppo analizzò, su scala mondiale, le interazioni e l’interdipendenza tra cinque punti critici, come l’aumento della popolazione terrestre, la produzione degli alimenti, il consumo delle risorse naturali, l’industrializzazione e l’inquinamento. Ebbene, elaborando un modello previsionale con quei dati, gli studiosi del MIT arrivarono a conclusioni catastrofiche: nel giro di un secolo – questo! – l’umanità avrebbe conosciuto la paralisi del sistema economico mondiale per ragioni che vanno dalla consumazione delle risorse naturali alla mancanza di terre da mettere a coltura, fino alla scarsità di alcuni minerali.
Di quel che si prospetta se n’è accorta prima e meglio di noi la Cina ed altri Paesi ricchi del Medio Oriente che si stanno mangiando l’Africa con il land grabbing, ovvero accaparrandosi le sue migliori aree agricole, creando così il paradosso che un continente morente di fame deve sfamare i Paesi più ricchi del mondo.
Eppure questa visione catastrofica del futuro ha iniziato ad esercitare una certa suggestione più sull’opinione pubblica che sui nostri modesti governanti i quali, anzi, per la risoluzione di un problema così vitale, preferiscono andare a traino di un’adolescente svedese che, invece di andare a scuola, si diverte ad attribuire il cambiamento climatico ai guasti ambientali e non, com’è scientificamente provato, ai ciclici mutamenti del sole. Non che la terra stia messa bene, per carità, ma questo è soltanto un pesante problema complementare.
Purtroppo, di là delle molte sceneggiate green di questi ultimi mesi, la nostra classe politica in generale e questo governo di sinistra in particolare, nella sua componente grillina, non può capire che la paralisi del sistema economico mondiale è dietro l’angolo perché, sotto sotto, essa considera variabili come la consumazione delle risorse naturali, la mancanza di aree coltivabili, la scarsità di combustibili e minerali, una semplice espressione della crisi del sistema di accumulazione capitalistico. Da qui la folle idea che la decrescita felice, pur condannandoli alla fame, alla fine possa far felice gli italiani.
Sicché continuiamo a perdere di vista il vero problema: approntare le contromisure per fronteggiare la crisi industriale globale perfetta che sta arrivando. Il guaio è, tra l’altro, che non abbiamo i soldi per tentare ora di far qualcosa, che i governi nazionali e l’UE hanno massacrato i nostri agricoltori ed allevatori, gli unici che in mancanza di industrie potevano avviare dei grandi processi di produzione agricola capace di sfamarci in un futuro. E, ci piaccia o meno, la Lega un grido di allarme in questo senso lo ha lanciato da tempi non sospetti.
Ma, molto probabilmente, la nostra produzione industriale per immobilizzarsi del tutto non dovrà attendere nemmeno i tempi previsti dal MIT cinquant’anni fa e per molte ragioni, una presa a caso: a parte il costo del lavoro, a parte i sindacati, a parte le tasse sul lavoro, a parte la magistratura, un’impresa che volesse impiantare una fabbrica in Italia, dovrebbe presentare uno studio che non solo renda conto dei materiali trattati e dei cicli produttivi seguiti, ma anche della destinazione dei rifiuti in un Paese che, però, non vuole sentir parlare di discariche, di inceneritori e/o di termo valorizzatori. E’ così stanno le cose.
Ma niente paura, quando arriverà il blocco globale, la fine di tutto un mondo produttivo, noi italiani non ce ne accorgeremo nemmeno perché saremo già finiti da tempo.