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“Essere Carabiniere” non è la stessa cosa che fare il Carabiniere

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“Essere Carabiniere” non è la stessa cosa che fare il Carabiniere

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“TEST DI CULTURA GENERALE”
Le determinazioni sulle quali si fonda il loro Corpo stabilivano che uno dei requisiti da possedere per essere ammessi nei Carabinieri Reali era di saper leggere e scrivere, ed è perciò divertente ma folclorica la diceria popolare che da due secoli vuole che essi operino sempre in due, perché uno sa soltanto leggere e l’altro soltanto scrivere. In realtà operano in coppia tutte le polizie italiane, però sui Carabinieri si scherza perché essi sono i più amati
– Enzo Ciaraffa –

Il 13 luglio del 1814 Vittorio Emanuele I di Savoia istituì il Corpo dei Carabinieri Reali, sicché come ogni anno da oltre due secoli dopodomani si celebrerà la festa dell’Arma dei Carabinieri, o della Benemerita, o della Fedelissima come spesso viene chiamata. Ciò posto, riteniamo sia giusto per i lettori domandarsi, almeno una volta l’anno, perché questo corpo di polizia, tanto amato eppure così corbellato dagli italiani, abbia tutto sommato conservato una granitica compattezza ideale nelle pur divisive vicende che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese negli ultimi due secoli. Noi riteniamo che questa compattezza si basi su molte virtù ma più di tutte vogliamo ricordarne una che, per i Carabinieri degni di questo nome, si è tramutata in un ineludibile impegno morale: la FEDELTA’. Parlare di fedeltà nella patria di Guicciardini, Macchiavelli e di una classe politica che ha fatto del trasformismo, del tradimento ideale e della doppia morale il sistema di governo degli uomini, potrebbe far sorridere di compatimento se non si tentasse di capire innanzitutto che cosa significa per un Carabiniere “essere Carabiniere”.

Questo tentativo è importante perché soltanto chi (per ragioni familiari e/o professionali…) ha lungamente bazzicato in una stazione dei Carabinieri del dopoguerra può essersi fatto un’idea del retaggio ideale che univa ed unisce ancora migliaia di uomini diversi per estrazione regionale, per livelli di scolarizzazione e per le responsabilità connesse al grado.

A cavallo degli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso, quando si entrava in una stazione dei Carabinieri, era come mettere piede su di un altro pianeta perché, ovunque si posassero gli occhi, si leggevano scritte il cui significato era incomprensibile ai comuni terrestri: “Camere di sicurezzaCaricamento e scaricamento armiBrogliaccioPiantone di servizioAlloggio scapoli Comandante della Stazione”.

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All’epoca la caratteristica principale di una caserma dei Carabinieri era l’odore che in essa aleggiava, anzi, più che un odore, era una miscellanea di odori. Si trattava di una mistura olfattiva che riusciva a richiamare molte cose alla memoria di chi vi entrava: il cuoio delle buffetterie, l’olio lubrificante delle armi, l’inchiostro dei timbri e l’odore del sugo per la pastasciutta che, a turno, un Carabiniere scapolo preparava per sé e per i propri commilitoni, spesso con risultati deprimenti. Non mancava neppure una bicicletta nera parcheggiata all’entrata e una cassa di legno con rinforzi di lamiera e lucchetto, che, grazie ad una catena, se ne stava ancorata al muro nell’ufficio del Maresciallo Comandante e che era pomposamente chiamata “Cassaforte a muro”.

Insomma quella dei Carabinieri di un tempo era una vita ordinata, sobria, quasi monastica. Che cosa animava quegli uomini semplici, così solidali tra loro, che vivevano in modo quasi indigente, ma allo stesso tempo tanto temuti dai delinquenti e tanto apprezzati dai cittadini perbene? Li sosteneva la fede o la ferrea disciplina? Niente di tutto questo: li sosteneva l’abnegazione e la fierezza che, uniti alla fedeltà e alla solidarietà, fanno del Carabiniere un poliziotto sui generis. Ma quando e dove è nata l’atipicità del Carabiniere?

Ciò che indusse Vittorio Emanuele I a creare il corpo dei militi con la lucerna in testa fu la paura di un’altra contagiosa rivoluzione francese. Infatti possiamo sostenere che la Francia e Napoleone sono “presenti” sia nell’uniforme storica dei Carabinieri che nel preambolo delle disposizioni costitutive del Corpo, più note come Regie Patenti. Con esse il re sardo-piemontese dispose la creazione di un corpo di polizia militare per il mantenimento del buon ordine, che sarebbe poi diventato il Corpo dei Carabinieri Reali: «Per ricondurre, ed assicurare viemaggiormente il buon ordine, e la pubblica tranquillità che le passate disgustose vicende [Rivoluzione Francese e Napoleone…] hanno non poco turbata a danno de’ buoni, e fedeli sudditi Nostri, abbiamo riconosciuto essere necessario di porre in esecuzione tutti que’ mezzi, che possono essere confacenti per iscoprire, sottoporre  al rigor della Legge i malviventi e male intenzionati, e prevenire le perniciose conseguenze, che da soggetti di simil sorta infesti sempre alla Società […] Abbiamo già a questo fine date le Nostre disposizioni per istabilire una direzione generale di Buon Governo…».

Per far nascere un corpo militare di polizia, però, oltre alla determinazione del re, occorsero anche degli Ufficiali esperti come il Capitano Luigi Prunotti, che in 18 articoli fissò il regolamento del nascente Corpo e nel quale, per la prima volta, comparve il termine Carabiniere, perché milite armato di carabina. Ciò avvenne il 13 luglio del 1814, a seguito dell’emissione delle Regie Patenti, infine vi furono le “Determinazioni di Sua Maestà”, le quali definirono la forza effettiva, l’armamento e perfino la divisa dei nuovi campioni della legalità dello Stato. Tali determinazioni stabilivano, peraltro, che uno dei requisiti da possedere per essere ammessi nei Carabinieri Reali era di saper leggere e scrivere, ed è perciò simpatica ma folclorica la diceria popolare che da due secoli vuole che i Carabinieri vadano sempre in due, perché uno sa soltanto leggere e l’altro soltanto scrivere. Ma si sa, sulle istituzioni   amate si può anche tranquillamente scherzare.

«Boccaccio Joannes a Trisobio, filius Joannis Baptist et Mariae Bernardinae jugalium de Bocacis, miles in legione de Carabinieri, plumbae glande confessus de repente oblit anno 1815». Questo atto di morte, redatto in latino dal vice parroco di Pieve di Vernante, può considerarsi il documento attestante il primo caduto in servizio dell’Arma dei Carabinieri. Infatti, il Carabiniere dall’impegnativo nome di Giovanni Boccaccio fu ucciso il 24 aprile del 1815 mentre tentava di arrestare un malfattore. Una ventina di anni dopo incominciò a prendere corpo anche l’albo dell’eroismo del Corpo. «Per aver preferito di farsi uccidere dai fuoriusciti nelle mani dei quali era caduto, piuttosto che gridare Viva la repubblica, a cui volevano costringerlo, gridando invece Viva il Re». Questa, infatti, fu la motivazione della prima medaglia d’oro al valor militare, alla memoria, concessa al Corpo nella persona del Carabiniere Giovan Battista Scapaccino. La storia a volte è bizzarra: Scapaccino fu insignito di una medaglia per non aver voluto inneggiare alla repubblica, mentre altri suoi commilitoni negli anni a venire avrebbero ricevuto la medesima decorazione per aver immolato la vita per la Repubblica Italiana. Al di là del nobile paradosso, questo dimostra soltanto che l’Arma dei Carabinieri ha ben meritato l’aggettivo di Fedelissima, sempre fedelissima allo Stato.

La morte del fedele Scapaccino fu il prodromo del Risorgimento italiano e il suggello di fedeltà che i Carabinieri misero sulla storia del nostro Paese, come pure aveva colto il più irresoluto e miope sovrano di Casa Savoia, Carlo Alberto, che in uno sprazzo di lungimiranza così annotò nel suo diario il 2 aprile del 1832: «Il Colonnello dei Carabinieri mi ha riferito la nota dei molti arresti della settimana; cinque o sei assassini sono stati commessi; ma tutti i delinquenti furono immediatamente incarcerati. Questo Corpo si è affermato in maniera sorprendente …».

Era la rigida selezione dei suoi appartenenti, la scelta uno per uno, che rendeva unici e sorprendenti i Carabinieri, una selezione che forse l’Arma dovrebbe riprendere di nuovo in mano se vuole ancora arruolare il meglio della società italiana, quei giovani d’illibatezza personale e generazionale dei quali il nostro Paese di certo non difetta.

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