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Un cane, un bambino e tanti ricordi

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Non so dove sia il mio primo cane, Remo, e spero che esista un paradiso canino senza botti e fuochi d’artificio, dei quali avevamo entrambi paura. Certo è che mi è stato vicino più del tempo che gli concesse madre natura perché, per quarantadue anni, ogni volta che ho partecipato ad una manovra militare oppure diretto un’esercitazione a fuoco, dove sparavano un po’ tutti, egli invisibile saltellava accanto a me nel ricordo dell’infanzia mentre, pensando alla nostra paura dei botti, me la ridevo sotto i baffi

– Enzo Ciaraffa –

Ogni anno, di questi tempi, sperando di dare un contributo a che cessi la crudele abitudine di abbandonare i cani per poter andare in vacanza, ripropongo un articolo il cui nucleo centrale è stato da me scritto molto tempo fa su Remo, il mio primo cane, un indimenticato amico dell’infanzia.

Ogni anno, all’inizio di giugno, ricorre la festa di San Salvatore, il patrono del mio paese natio, giù in Terra di Lavoro. Un tempo i paesani, ma anche gli abitanti dei paesi vicini, erano molto affezionati al santo perché gli attribuivano poteri taumaturgici e, perciò, in tale occasione vi era un grande accorrere di fedeli che chiedevano qualche grazia o il lenimento di una pena nascosta. Questa festa, che si celebra tutt’oggi, era famosa per i fuochi d’artificio che ne segnavano le varie fasi e per la fantastica gara notturna tra pirotecnici di fama che la chiudeva. Quei fuochi erano la gioia dei paesani ma la disperazione mia e di Remo, il bracco tedesco che supportava – in modo piuttosto anarchico in verità – le battute di caccia di mio padre. In altre parole il cane ed io avevamo una dannata paura dei botti, e buon per lui che non si rese mai conto che per un cane da caccia, aver paura degli spari, era un fatto a dir poco indecoroso. Ma Remo era un rappresentante molto disinvolto della sua specie e, perciò, non aveva di queste sofisticherie intellettuali (o più semplicemente se ne fotteva della coerenza canina), mentre io ero troppo piccolo per esserne affetto.

Per un periodo breve, eppure stupendo, quello dell’infanzia, assieme al mio fifone a quattro zampe crescemmo in libertà assoluta, tra la campagna che circondava allora il paese, la piazza alberata, e un palazzone di contadini nel quale abitavo, con antistante un’aia immensa. Remo era talmente affezionato a me che si assoggettava ad essere compagno o paziente vittima dei miei giochi, come quando pretendevo di aggiogarlo a un carrettino che mi ero costruito con una cassetta della frutta. Il nostro affiatamento era perfetto e perfino in famiglia, ormai, mi riconoscevano una certa potestà su di lui perché, essendo entrambi spiriti anarchici, sembrava fossi l’unico a cui ubbidisse: in realtà ero l’unico di cui si fidava. Sta di fatto che dove ero io, era lui.

Ma ritorniamo a San Salvatore. La sua statua ricoperta dalle banconote e dagli ex voto offerti dalla popolazione, durante la festa, era portata in giro per il paese preceduta dalla banda musicale locale, seguita dal sindaco e da una moltitudine di fedeli, ma anche da venditori ambulanti di palloncini e giocattoli di legno, il che per un bambino e per un cane curioso, al tempo in cui non esistevano la televisione e quella plastica modellata che oggi chiamiamo giocattoli, costituivano un richiamo irresistibile.

I problemi incominciavano quando il fuochista accendeva le micce dei fuochi d’artificio predisposti lungo il percorso della processione. Infatti, era esattamente a quel punto che Remo ed io scappavamo in direzione di casa, dove lui arrivava prima di me, per andare ad infilarci sotto il lettone dei miei genitori. Quando ciò avveniva, non erano poche le blandizie alle quali dovevano ricorrere papà e mamma per farci venir fuori da quel ricovero che odorava di canfora, quella che al tempo della mia infanzia si impiegava per proteggere le coperte dalle tarme.

In genere andava a finire così: il primo, guardingo, ero io a mettere la testa fuori e, poi, di corsa, andavo ad aggrapparmi alla sottana di mia madre, mentre Remo, impudicamente, si metteva a saltellare tra le gambe di mio padre, che lo guardava con commiserazione, come se niente fosse. «Non so cosa farà nella vita questo ragazzo ma, con la paura che ha degli spari, di certo non sceglierà la carriera militare e meno che mai farà il Carabiniere come me». Parecchie festività di San Salvatore finirono con quella sofferta sentenza del vecchio Appuntato, mio padre il quale, poveretto, all’epoca non poteva certo immaginare che da grande avrei scelto come occupazione proprio la carriera militare, che peraltro si sarebbe svolta in modo non ignominioso per ben quarantadue anni.

Al posto della campagna intorno al mio paese natio oggi sorgono migliaia di appartamenti costruiti uno sull’altro, quel palazzo dall’aia immensa non esiste più e sulla piazza non giocano più bambini. Non so dove tu sia adesso vecchio Remo, e spero che esista un paradiso canino senza botti e fuochi d’artificio. Certo è che mi sei stato vicino più del tempo che ti concesse madre natura perché, per quarantadue anni, ogni volta che ho partecipato ad una manovra militare, oppure diretto un’esercitazione a fuoco, dove tra fucilieri, o artiglieri, o mitraglieri sparavano tutti come matti, tu invisibile saltellavi accanto a me. A quel ricordo, pensando alla nostra passata paura dei botti, me la ridevo sotto i baffi.

Adesso che sono all’autunno della vita, mi piace pensare che da qualche parte Remo mi stia aspettando magari agitando la coda, come faceva fuori la scuola all’approssimarsi dell’ora di uscita.

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