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L’Italia sta affondando nel mare nostrum

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Quanto sta accadendo sulla sponda africana del Mediterraneo è roba troppo complessa per un governo di dilettanti allo sbaraglio in un Paese che in Libia non ha niente da mettere in campo a favore dell’uno o dell’altro contendente, che peraltro ha rinunciato ad avere una politica estera dal 1949, ovvero da quando entrò a far parte della NATO, della quale si mise acriticamente a rimorchio senza mai staccarsene

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A distanza di oltre un secolo dalla guerra italo – turca e approfittando della debolezza politica e militare dell’Italia, la Turchia sta per rimettere di nuovo piede in Libia, dove si è inserita nella guerra tra il generale ribelle Khalifa Haftar e il capo provvisorio del governo Favez al-Sarrai. Per non essere preso (eventualmente) in contropiede dalla NATO o dall’UE, il parlamento turco ha votato – ma meglio sarebbe dire che ha ratificato – la decisione di Erdogan d’inviare truppe in Libia a sostegno di al-Sarrai, anche se, in realtà, le intenzioni del rais di Ankara sono ben altre. Per citarne soltanto un paio: sfruttare le riserve di idrocarburi esistenti nel tratto di mare tra la Libia e l’isola di Cipro, e prendere per il collo l’Unione Europea a proprio piacere. Più avanti vedremo anche come e perché.

Il prossimo 7 gennaio, troppo tardi rispetto a quanto ha già deciso di fare Ankara, s’incontreranno i ministri degli esteri dell’Italia, della Francia, della Germania e della Gran Bretagna per cercare di trovare una soluzione politica alla crisi libica, una soluzione che vediamo difficile per la scarsa attendibilità dell’Italia e dell’Unione Europea che, sulle due parti in lotta, hanno già fatto da tempo la loro scelta, puntando sul riconoscimento ufficiale di al-Sarrai come capo provvisorio del governo libico.

Ritornando alle trame di Ankara: sono già comparsi in Libia i primi mercenari filo turchi e pare che Erdogan abbia intenzione di inviarvi  altri 3.000 militari regolari in appoggio ad al-Sarrai il che, immaginiamo, non lascerà con le mani in mano i Paesi che sostengono il suo rivale, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, l’Egitto, la Francia e la Russia, col pericolo di fare evolvere in un nuovo scenario siriano un conflitto per adesso piuttosto contenuto, in un Paese che si trova ad appena 450 chilometri dalle nostre coste e dal quale proviene il 90% del traffico degli immigrati clandestini. Insomma c’è una bomba pronta ad esplodere fuori l’uscio di casa nostra, mentre la politica italiana è totalmente nel pallone e alle prese con lo psicodramma dei rimborsi e con la diaspora del M5S.

Dopo il suo inutile incontro sulla Libia con al-Sarrai e Haftar a Palermo il 13 novembre del 2018 (nella circostanza il rappresentante turco abbandonò polemicamente l’incontro), il capo del governo Conte, impegnato in questi giorni ad inventarsi ministeri per tenere insieme la sua male assortita maggioranza, ha pensato di poter smarcare la casella dello specifico dossier mediante, stavolta, una telefonata ai due principali sostenitori del Generale Haftar. Dei due, Putin si è detto d’accordo soltanto per un aggiornamento sine die della discussione, mentre il dittatore egiziano al-Sisi non è andato oltre vuoti e insinceri auspici di equidistanza. Insomma è arrivata aria fritta anche dal Cairo!

Tutto qui? Tutto qui, e poi il presidente Conte non avrebbe potuto fare diversamente, perché ciò che sta accadendo sulla sponda africana del Mediterraneo è roba troppo complessa per un governo di dilettanti allo sbaraglio in un Paese che non ha niente da mettere in campo a favore dell’uno o dell’altro contendente, che peraltro ha rinunciato ad avere una politica estera dal 1949, ovvero da quando entrò a far parte della NATO, della quale si mise acriticamente a rimorchio. Come fece nel 2011 quando USA, Francia, Turchia, Qatar ed Emirati Arabi, in preda ad un rigurgito di democrazia, decisero di eliminare il presidente libico Gheddafi senza aver prima pensato “al dopo”.

Purtroppo, a fronte di una situazione politico-militare così esplosiva, le grandi ignave dell’area mediterranea, NATO ed Unione Europea, tenendosi alla larga dalla situazione libica dopo che esse stesse l’hanno creata eliminando Gheddafi, stanno fornendo al leader turco – un integralista religioso, anche se veste Armani – la corda con la quale questi intende strangolarle. E che Erdogan intenda fare ciò non dovrebbe essere un mistero per nessuno, stante la chiara esortazione che il 17 marzo del 2017 da Istanbul questi lanciò ai turchi che vivono in Europa: «Da qui faccio un appello ai miei fratelli in Europa. Vivete in quartieri migliori. Comprate le auto migliori. Vivete nelle case migliori. Non fate tre figli, ma cinque. Perché voi siete il futuro dell’Europa. Questa sarà la migliore risposta all’ingiustizia che vi è stata fatta». Più chiaro di così!

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Ma se i progetti dei turchi sono pericolosi per i nostri interessi, che pure siamo l’antemurale del continente nel bacino mediterraneo, sono pericolosissimi per tutta l’Unione Europea, che sta facendo col rais turco lo stesso errore che avevano fatto i romani del basso impero con i capi delle orde barbare per tenerle lontane dai propri confini: pagavano. E sappiamo come andò a finire. L’unione Europea, infatti, dal 2016 sta pagando una tangente di circa sette miliardi di euro alla Turchia affinché questa blocchi e tenga, dentro i propri confini, i profughi provenienti dall’area siriana, nonostante che Erdogan non sia la persona più affidabile per stipularvi un patto duraturo. Infatti, quando voleva zittire l’Unione Europea che protestava per le sue malefatte nel Kurdistan siriano o per ricattarla allo scopo di ottenere altri soldi, egli minacciava di far partire i quattro milioni di profughi che, al momento, tiene in casa come catapulte pronte a lanciare il loro “carico” sull’Europa… figuriamoci che cosa potrà fare quando metterà piede in Libia.

Non crediamo che l’Italia possa avere un qualche ruolo nella partita libica perché conta davvero poco nello scacchiere mediterraneo, ma certamente di più potrebbero fare l’Unione Europea e la NATO della quale la Turchia fa parte, mettendo insieme un’operazione militare del tipo Allied Force come nell’ex Jugoslavia, l’operazione che nel 1999 costrinse gli irriducibili serbi a ritornare al tavolo delle trattative sull’indipendenza del Kosovo, interrompendo così il proseguimento di un genocidio e l’inizio di una violenta frantumazione dell’area.  E, fatto non secondario, una tale operazione militare imbriglierebbe la manovra libica di Erdogan che, a quel punto, non potrebbe mettersi contro la sua stessa alleanza… a meno di non volersi buttare anima e corpo nelle braccia di Putin, una decisione che le forze armate turche, filo americane, non gli perdonerebbero, come non gli perdonerebbero un eventuale asse con l’Iran che, proprio in queste ore, è impegnata in un duro confronto con gli USA per l’uccisione a Baghdad del Generale Qassem Soleimani.

Al momento, comunque, la situazione è questa: qualora il rais turco indirizzasse, o soltanto minacciasse di fare ciò, i profughi che ha già in casa verso la rotta balcanica per farli arrivare, in Austria, in Germania, in Danimarca e in Olanda, mentre quelli della Libia verso l’Italia, porta di accesso mediterraneo in Europa, Erdogan ci avrebbe tutti quanti in pugno.

Con l’aggravante che stavolta gli obiettivi politici di Erdogan, che non è molto amato dalle alte gerarchie militari turche, si sposerebbero con gli uzzoli revanscisti del suo esercito perché – come sostenne lo storico italiano Arturo Carlo Jemolo – le delusioni militari sono, per i popoli, l’equivalente delle umiliazioni sessuali. Sicché l’esercito turco, in un momento di particolare debolezza dell’Europa, ritiene di aver trovato il proprio Viagra in quella Libia dalla quale gli italiani lo estromisero nel 1912. Anche se – storia poco raccontata –  un loro ufficiale, poi politico e infine massacratore degli armeni, Enver Bey, improvvisatosi guerrigliero, diede non pochi grattacapi alla forza di occupazione italiana, e le sue imprese accrebbero la poca stima che Giolitti già nutriva per la casta militare: «Centomila uomini e trenta generali che non riescono a venire a capo di un Tenente Colonnello».

Anche noi, come Giovanni Giolitti 107 anni fa, per la risoluzione della questione libica non nutriamo grande fiducia nella classe politica dei Paesi della NATO e dell’Unione Europea. Sicché, parafrasando lo statista piemontese rileviamo, sconsolati, che due alleanze politico – militari di portata globale, in nove anni, non sono riuscite a venire a capo di niente in un Paese privo di una classe politica moderna e di una passabile forza militare.

Ci riusciranno i turchi  a venirne a capo?

È probabile (se gli USA saranno disposti a far buon viso a cattivo gioco), perché ci metteranno la forza militare, l’unico linguaggio comprensibile all’ombra dei minareti.

Ma deve essere chiaro – e purtroppo non lo è per tutti – che il prezzo che pagheremo noi europei, Italia in testa, sarebbe molto alto.

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