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Italia, Paese liquido o in dissoluzione?

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Ormai gli italiani possono riconoscersi soltanto nell’ultimo strumento di dissenso e, allo stesso tempo, caposaldo identitario e libertario dei popoli: la capacità di far massa, virtuale sul web, o materiale nelle piazze. Ma questa residuale capacità di interdizione e di dissenso delle masse popolari non è sfuggita ad una miserabilissima classe politica e dirigente sempre più distante dalle istanze degli amministrati che, per sterilizzarne il potere, è ricorsa perfino allo stravolgimento delle regole democratiche
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In modo un po’ abborracciato, possiamo dire che nel suo saggio “Modernità liquida” il sociologo polacco Zygmunt Bauman racchiuse il dramma e le contraddizioni della società contemporanea negli aggettivi solida e liquida, dove quella solida era la società moderna, quella liquida, invece, la società postmoderna nella quale ci troviamo a vivere. Bauman, infatti, riteneva che le angosce esistenziali dell’individuo globalizzato derivassero dal repentino smantellamento delle sue ataviche sicurezze, quei capisaldi etici e morali che, fino all’avvento della postmodernità, avevano retto la società umana, quella solida intendeva. Quando, però, l’individuo è passato dal ruolo di pensante produttore a quello di consumatore inerte [il cittadino ideale del villaggio globalizzato!] si è venuta a creare, secondo il sociologo polacco, recentemente scomparso, una società instabile, del tutto priva di appigli ideali, e pertanto liquida.

A riguardo riteniamo che noi italiani siamo all’avanguardia perché, nel giro di sole quattro generazioni, siamo riusciti ad andare oltre lo stato chimico della liquefazione ideale e sociale, e il perché è presto detto: mentre altrove sono state distrutte, negli anni, soltanto alcune delle certezze sulle quali si basava la società solida, l’abolizione dei confini ad esempio, da noi, vuoi per la debolezza storica delle istituzioni democratiche, vuoi anche per i disvalori propalati dalla televisione berlusconizzata e/o colonizzata  dalla politica, vuoi per il contagio culturale del web, le certezze morali sono state smantellate tutte in una sola volta perché quattro generazioni, un secolo, che per la storia è soltanto un battito di ciglia. Insomma, nel caso italiano dovremmo parlare non di società liquida ma di società in dissoluzione, perché sono svaporati tutti in una sola volta appigli ideali ed etici come religione, giustizia, concetto di Patria, servizio militare di leva, confini politici. Ma andiamo a vedere, uno per uno, com’è stato che questi valori si sono dissolti sotto i nostri occhi senza che la maggior parte di noi neppure se ne accorgesse, e quali effetti hanno prodotto.

Partiamo dalla dissoluzione della religione. Senza stare ad elencare in questa sede tutte le tiepide, talvolta perfino sconcertanti, prese di posizione della Chiesa su temi di fondamentale importanza quali la famiglia, l’omosessualità e l’aborto, l’attuale papa ha dato il colpo finale agli smarriti fedeli della tradizione cristiana facendo eliminare dall’annuario pontificio la tradizionale espressione “Vicario di Cristo”, ritenendosi egli un primus inter pares o più semplicemente vescovo di Roma come, peraltro, si era autodefinito all’atto della sua elevazione al soglio petrino. A questo punto, e senza andare molto per le lunghe, al papa bisognerebbe fare la stessa domanda che il sommo sacerdote del Sinedrio, Caifa, fece al Salvatore prima di consegnarlo ai carnefici romani: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Perché, se non è così, molti fedeli potrebbero domandarsi che cosa egli ci stia a fare sul seggio del Vicario di Cristo per antonomasia, Pietro.

La dissoluzione della giustizia. Beh, per dimostrare che fine abbia fatto la giustizia in Italia non bisogna sprecare neppure molte parole, basta andare a rileggersi il testo delle intercettazioni disposte dalla procura di Perugia sul magistrato Luca Palamara, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura (presieduto dal presidente Mattarella), già presidente dell’ANM e sostituto Procuratore di Roma. Ebbene, grazie a tali intercettazioni abbiamo scoperto che nel nostro Paese, quando il cosiddetto cittadino – sovrano affronta un processo, il fatto che egli sia colpevole o innocente è un concetto relativo, se non del tutto ininfluente ai fini della sentenza.

La dissoluzione della Patria. La Patria è morta dopo una lunga e penosa malattia, cha ha avuto un decorso trifasico, ovvero: il 30 ottobre del 1922, il re seppellì definitivamente lo Stato liberale post risorgimentale affidando il governo del Paese alla dittatura di Benito Mussolini, che stravolse e inquinò il concetto stesso di Patria. La notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943, diciannove dei ventotto gerarchi riuniti in quella specie di Parlamento fascista che era il Gran Consiglio e il re d’Italia, che aveva dato il segreto avallo all’operazione, sfiduciarono Mussolini con l’illusione di riuscire a smarcarsi da lui e dal Ventennio prima che la barca affondasse del tutto. Seguì l’arresto a tradimento di quello che era stato il capo del governo per oltre vent’anni. E questo atto, indispensabile ma indecente per come fu organizzato, avvenne a Villa Savoia, cioè nella casa privata del re d’Italia, il padre della Patria. All’alba del 9 settembre 1943, il capo del governo Maresciallo Badoglio, il re capo dello Stato, la famiglia reale e circa trecento dei principali comandanti militari, scapparono da Roma per rifugiarsi a Brindisi, sotto la protezione degli Alleati avanzanti, abbandonando la Patria e milioni di uomini in armi che volevano difenderla nelle mani dei tedeschi. Anche se fu giustificata dagli interessati con la necessità di dovere assicurare la continuità istituzionale sia della monarchia che dello Stato, quella fuga avrebbe invece decretato la fine di entrambi, per un prevedibile effetto a catena, cosicché rimanendo senza guida, le forze armate, che dello Stato – Patria risorgimentale erano il simbolo e della monarchia il puntello, si dissolsero anch’esse in poche ore.

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Il servizio militare obbligatorio. Mentre la buriana mega-giudiziaria di Mani Pulite si attenuava, la politica realizzò di dover recuperare un minimo di credibilità e di consenso tra gli italiani sempre più scettici e distanti, sicché un Parlamento falcidiato dai giudici milanesi rispolverò il progetto di abolizione (in realtà la chiamarono “sospensione”) della leva militare. Fu così che, con 396 voti a favore, 12 contrari e 21 astenuti, in Italia fu abolita la leva militare obbligatoria a favore di un esercito professionale. Nella circostanza, per scrollarsi di dosso un po’ del fango di quegli anni, in Parlamento ogni politico volle dire la sua sull’abolizione della leva gareggiando, il più delle volte, a chi la sparava più grossa. Essi, infatti, parlavano di un mutamento delle forze armate del quale non avevano mai capito niente, e la cui attuazione pratica avrebbe trovato impreparati, tanto per cambiare, gli stessi militari di ogni ordine e grado. Il deputato, ex comunista Pietro Folena – quello che secondo Cossiga poteva fare soltanto il modello – così salutò il provvedimento sospensivo della leva obbligatoria: «Quella di oggi è una splendida giornata per la democrazia del nostro Paese. La Camera, approvando la proposta del Governo, da anni sollecitata dai D.S., da un lato cancella l’obbligo di leva, ormai anacronistico e classista, e dall’altro accelera il processo di professionalizzazione e di trasformazione delle Forze Armate […] In questo strumento migliaia di giovani volontari potranno trovare nuove opportunità di lavoro e di formazione». Transeat sul fatto che appena mezzo secolo prima il padrino di Folena, Palmiro Togliatti, aveva sentenziato che l’esercito di mestiere era la rovina di un Paese. Sta di fatto che con la sospensione/abolizione della leva militare si chiuse un’epoca e una storia, magari non sempre bella perché fatta sì di eroismi ma anche di sofferenze e di umiliazioni. Era stato l’unificante storia di tutti gli italiani, da Bressanone a Pantelleria.

A quel punto, quale caposaldo identitario, che tipo di appiglio ideale restava agli smarriti italiani nel procelloso mare magnum della globalizzazione? Intorno a quale principio basilare essi si sarebbe agglomerati per cercare di passare indenni attraverso il progressivo tentativo di asservimento della “dittatura del sistema”? Ormai gli italiani potevano riconoscersi soltanto sull’ultimo strumento di dissenso e, allo stesso tempo, caposaldo identitario e libertario dei popoli: la capacità di far massa, virtuale sul web, o materiale nelle piazze. Ma questa residuale capacità di interdizione e di dissenso delle masse popolari non è sfuggita ad una miserabilissima classe politica e dirigente sempre più distante dalle multiformi istanze degli amministrati che, per sterilizzarne il potere, è ricorsa perfino allo stravolgimento delle regole democratiche. Si è inventata, infatti, le commissioni di salute pubblica contro le istanze identitarie, spacciandole per razzismo, contro le verità scomode appellandole come fake news, contro i nostalgici della Patria e della nazione definendoli sovranisti, contro i fautori della democrazia diretta spacciandoli per populisti: neppure il Padreterno biblico, l’iracondo Jahvé, era così tonitruante ed implacabile!

In questa scientifica criminalizzazione del dissenso la politica, che alla fine può ripagarli con finanziamenti, esenzioni, licenze e tasse ridotte, i governi hanno quali alleati la maggior parte dei media e dei social che si arrogano ormai la facoltà di decidere che cosa si possa pubblicare sulle loro piattaforme e cosa no.

Poi è arrivato dalla Cina il coronavirus che per i sistemi di potere, pressoché incapaci di contenerne gli effetti letali peraltro, si è rivelata un’occasione irripetibile per distruggere le residue libertà elementari dei cittadini, degli italiani in particolare. Ma neppure tutto questo è bastato al sistema di potere che, in nome della pubblica salute, impedisce tutt’ora ai cittadini di riunirsi e, nel caso l’intento non fosse chiaro, ha imposto loro anche il “distanziamento sociale”. È giusto o sbagliato tutto questo? I pareri degli specialisti in proposito sono piuttosto difformi. Una certezza però noi ce l’abbiamo: non vogliamo vivere in un mondo dove, secondo Lucia Azzolina, scolari robotizzati, immobili nei banchi e distanti dai loro compagni, ascoltano da lontano un insegnante che, con guanti, mascherina chirurgica e visiera di plexiglass, dovrebbe costruire nei loro cuori e nello loro menti l’edificio della conoscenza e dei valori. Il che, stante le diverse premesse, è come costruire sull’acqua, giusto per ritornare alla “società liquida” dalla quale siamo partiti e nei cui marosi ci dibattiamo sempre di più.

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E siamo, alfine, arrivati a quella che riteniamo essere l’ultima causa della nostra dissoluzione identitaria: l’abolizione dei confini politici. Vagheggiare l’abolizione di tutti i confini, oltre ad essere demagogico è, secondo noi, anche pericoloso, perché confine non è sinonimo di chiusura ma, semmai, di selezione, o se preferite di accoglienza condivisa. Va da sé il fatto che coloro i quali entrassero nel nostro Paese per condivisione e non per invasione come sta accadendo, poi sarebbero bene accetti, troverebbero dignitosa collocazione e non darebbero luogo ad episodi d’intolleranza perché si creerebbero le condizioni per la loro effettiva integrazione con gli ospitanti. E un immigrato integrato, assoggettato alle nostre stesse regole e doveri, è difficile che poi uno se lo trovi a mangiare il suo gatto arrostito fuori casa o a violentare una ragazza nel parco cittadino.

Ma i nostri politici, almeno fintanto che glielo lasceremo fare, hanno scelto la pericolosa strada dell’accoglienza acefala dell’immigrazione, confidando nella “costosa” collaborazione dei Paesi che la originano, il che è quantomeno infantile: perché tali Paesi vi si dovrebbero opporre, o collaborare per il rientro in patria dei loro immigranti, se l’Italia è così ben disposta a togliere loro dai piedi masse di disadattati potenzialmente eversivi?

Dunque, chi ci potrà mai salvare, chi potrà fornirci un approdo ideale sulla terraferma di solidi valori? Chi potrà evitarci di diventare una colonia periferica dell’impero comunista cinese? A riguardo una risposta l’avremmo anche se, e ne siamo certi, essa farà schizzare fuori dalle scarpe i benpensanti e politicamente corretti. Secondo noi potrà impedirci di affogare definitivamente nella società liquida globalizzata il ritorno allo stesso sistema politico che ha retto le sorti del mondo fino alla caduta del muro di Berlino. Parliamo di quel sovranismo razionale (se non lo fosse stato chissà quante volte il mondo sarebbe saltato per aria) che, nonostante i suoi non pochi limiti, fu più rassicurante di un mondo senza ideali, senza freni morali e politici, senza regole e senza confini. Liquido e pericoloso appunto.

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