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Il reddito di cittadinanza sopravvivrà al Covid?

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Un provvedimento già di suo abbastanza discutibile sul piano delle dinamiche lavoro-assistenza in uno stato liberale e che, nato per contrastare la povertà diffusa, la diseguaglianza e l’esclusione sociale, il reddito di cittadinanza non ha, in realtà, prodotto i benefici sperati che, in ultima analisi, erano quelli di voler sostenere economicamente le persone prive di reddito e agevolarne l’inserimento nel mondo del lavoro, come dire la classica buona intenzione fondata sul presupposto sbagliato
– Mariangela Buttiglieri *-

Vuoi per l’ennesimo, pessimo risultato ottenuto nelle ultime elezioni regionali e comunali, vuoi per i mal di pancia della base che si oppone alla trasformazione del movimento in partito-sherpa del PD, i Cinque Stelle sembrano prossimi all’implosione più di quanto non amino far vedere, in questo periodo dove la paura della pandemia la fa da padrona e distoglie molte attenzioni. Beninteso che non intendo andare a metter becco in casa d’altri ma soltanto domandarmi che cosa resterebbe, in caso di una molto probabile fine ingloriosa del movimento inventato dai Casaleggio, del provvedimento più caratterizzante, il reddito di cittadinanza, anche alla luce del fatto che il passaggio del Covid-19 sta drenando risorse come un’idrovora impazzita.

Parliamo di un provvedimento già di suo discutibile sul piano delle dinamiche lavoro-assistenza in uno stato liberale e che, nato per contrastare la povertà diffusa, la diseguaglianza e l’esclusione sociale non ha, in realtà, prodotto i benefici sperati che, in ultima analisi, erano quelli di voler sostenere economicamente le persone prive di reddito e agevolarne l’inserimento nel mondo del lavoro: la classica buona intenzione fondata sul presupposto sbagliato! E cioè fondata sul puerile convincimento che tutti i percettori del reddito di cittadinanza si sarebbero posti, poi, alla forsennata ricerca di un lavoro. Ma questo non è avvenuto … perché? Cercherò di rispondere a questa domanda come medico e come politico.

Intanto non posso fare a meno di rilevare che, checché ne dicano i luoghi comuni, l’uomo per sua natura non ama la pigrizia se non come pausa dalla fatica, od anche un periodo di riposo dalle attività quotidiane, per recuperare le proprie energie fisiche e mentali. Ove, invece, perduri l’inattività, l’esistenza umana si svuota di stimoli e di contenuti sfociando in vere e proprie patologie cliniche della sfera neurologica e psicologica. Peraltro, uno strumento che non faccia parte di un vasto ordito legislativo come il reddito di cittadinanza, incentrato unicamente sulla carità di Stato, inficia due dei principali diritto dei cittadini: il diritto al lavoro e alla libertà. Chi non produce, infatti, non può ritenersi un individuo totalmente libero perché tutto ciò che ha gli viene da altri ai quali deve sottostare. Qualcuno la chiama interdipendenza, per me è soltanto clientelismo scientifico.

Concetto eccessivamente liberista questo mio? Beh, allora bisogna ricordare che ad essere liberista è la nostra Costituzione laddove, all’articolo 4, essa recita testualmente che «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Come si può notare, la nostra suprema lex pone il lavoro non soltanto tra i diritti del cittadino ma anche tra i suoi doveri.

A questo punto l’obiezione potrebbe essere «E se il lavoro non c’è?». La risposta dovrebbe essere rapida, logica e scontata: «Si crea!». Anche perché, prima di distribuirli, i soldi bisogna produrli, se non vogliamo fare come i governi che si sono succeduti alla guida del nostro Paese dall’avvento del Centrosinistra ad oggi, i quali per le loro politiche demagogiche si sono semplicemente limitati a  saccheggiare l’erario!

Ma dove investire per creare lavoro? Lungi da me la presunzione di avere la risposta in tasca per rispondere a questa domanda in un Paese che non elabora un piano organico per il lavoro dalla “Carta del Lavoro” del 1927, perciò mi limiterò ad osservare che cosa è accaduto in Paesi che erano messi anche peggio di noi, come l’America della grande crisi seguita al tracollo economico del 1929, una nazione che era praticamente a terra. Ebbene, appena eletto il presidente Roosevelt diede inizio a quello che è conosciuto come New Deal – Nuovo Patto. Di che cosa si trattò? Per dirlo molto molto semplicisticamente, si trattò dell’instaurazione di un rapporto nuovo tra Stato ed economia, in virtù del quale il primo dettò le regole alla seconda (ma non la massacrò di tasse), intervenendo anche con capitale pubblico in alcuni settori infrastrutturali.

Credo che dovremmo pensare a qualcosa del genere anche noi, investendo sulle opere pubbliche, costruendo una casa per tutti, creando progetti per il rassetto territoriale del quale, come abbiamo visto in questi giorni di tragedia dovuta al maltempo l’Italia ha urgente bisogno. Dovremmo puntare anche sul riutilizzo di quei progetti faraonici inaugurati nel passato ad usum dei media e mai utilizzati, convertendoli in opere di servizio pubblico. Di pari passo dovremmo detassare i soggetti che producono lavoro, aumentare i salari minimi, riproporre in versione moderna scuole come quelle che una volta si chiamavano di Avviamento Professionale e Industriale. Ciò per insegnare mestieri pressoché scomparsi – come quello di idraulico, calzolaio, sarto, elettricista – e riqualificare, così, anche la nuova manodopera grezza che ci arriva con l’immigrazione (perché quella specializzata e i laureati se li prende la Germania) per inserirla nel circuito produttivo, invece di abbandonarla a se stessa in nome di un’accoglienza ipocrita che, in realtà, una volta accolti poi li abbandona a se stessi.

Dovremmo anche ripristinare i Vaucher per alcuni settori come l’agricoltura, dove l’utilizzo del lavoratore, essendo legato alla stagione di raccolta o di semina, non può essere permanente. Oggi, infatti, con l’eliminazione dei Vaucher e il reddito di cittadinanza, proprio nel settore dell’agricoltura, non è più possibile reperire manodopera, nonostante l’intenzione del ministro per l’agricoltura, Bellanova, che voleva regolarizzare 600.000 immigrati da impiegare come braccianti agricoli. Al contrario di molti liberali d’accatto, io non ero affatto contraria al progetto della Bellanova se non nella misura in cui esso era scollegato da qualsiasi progetto organico riguardante il lavoro, come dire: «Immetti mezzo milione di lavoratori stagionali sul mercato e le regole dove sono? Dopo la raccolta essi che fine faranno?».

Per quanto strano possa sembrare a chi ci osserva dall’estero, in Italia sono più chiare le regole per starsene sul divano che per andare lavorare: una si chiama reddito di cittadinanza. Come dire che stiamo sprecando miliardi di euro non per rifare regole e progetti, un New Deal italico per capirci, ma per congelare di fatto una disastrosa situazione economica ed occupazionale dove milioni di lavoratori si aspettano, ormai, la sopravvivenza economica non dal lavoro ma dai sussidi di Stato.

Ma, come ho prima accennato, c’è un piccolo dettaglio che è sfuggito ai grillini e agli ultimi due governi, e cioè che i soldi prima di distribuirli bisogna darsi da fare per produrli. È “come” produrli che non possiamo più fare perché è stata massacrata la produzione assieme agli operai. Con questi chiari di luna, non si può pensare di continuare a pagare la cassa integrazione a tempo illimitato e men che mai il reddito di cittadinanza: o si paga l’una o si paga l’altro. In ambedue i casi sarà il disastro sociale.

* Medico specialista,
consigliere comunale a Busto Arsizio,
responsabile regionale del dipartimento salute di F.d.I.
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