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Il viaggio di Inzaghi nel cinema americano è anche il viaggio della nostra vita

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L’immagine dell’America che il cinema trasmetteva a noi ingenui sognatori dei piccoli cinematografi dei paesetti del Sud dove, per venticinque lire, potevamo vedere due film, uno di cow boy e l’altro di Stanlio e Ollio, era quella di un Paese padrone e dominatore del proprio destino. Un’ingenuità quella nostra che abbiamo perso anche noi di riflesso, quando il cinema americano ha iniziato a traguardare la propria storia attraverso cineprese alle quali era stato tolto il filtro del conformismo  politico
– Enzo Ciaraffa –

Uno crede di essere stato una persona normale e pacifica, di essere sempre stato animato da ecumeniche pulsioni, e poi scopre di aver dato il primo bacio a una ragazza il giorno della morte di John Fitzgerald Kennedy, di avere intrapreso la carriera militare l’anno dell’uccisione di Martin Luther King e di essere convolato a nozze nel mese dell’ennesima guerra arabo-israeliana chiamata anche guerra del Kippur. Diamine, che memoria prodigiosa a ricordare queste cose, potrebbe pensare qualcuno! Macché, il merito è stato del libro di Matteo Inzaghi “Mai più così belli”, ovvero una carrellata di film che, come promesso dal sottotitolo, è stata capace di portarmi attraverso gli inesplorati meandri della New Hollywood del cinema o, se preferite, degli Stati Uniti, a cavallo di politica, storia, arte e psicologia, dal tempo della guerra fredda ai nostri giorni.

A prima vista si potrebbe pensare che, quello scritto dal direttore di Rete 55, sia un libro per cinefili, riguardante un ambiente, un settore artistico ed un Paese distanti da noi mentre, invece, dal dopoguerra ad oggi ha avuto il potere di segnare la storia della politica, delle mode e dei costumi della società occidentale, di quella europea in modo particolare, ma di quella italiana in modo speciale.

Per aiutare il lettore a capire che cosa io voglia intendere per “speciale”, mi farò aiutare da ciò che il 14 novembre del 1949 scrisse Il Popolo, il giornale dell’allora Democrazia Cristiana: «L’apparente aspetto tentacolare di una città americana non uccide il cuore di chi vi abita. L’America è ormai un paese a classe unica: il ceto medio senza privilegi, né di nascita né di censo. Anche le donne hanno un miglior livello di vita potendo usufruire di ogni tipo di elettrodomestici. Regna la più perfetta armonia fra produttori e imprenditori. Il sistema americano è il migliore del mondo, dubitarne è un’eresia». Se qualcuno oggi obbiettasse che questa non era una condivisione politica ma adorazione, avrebbe ragione. Ma quella era, nel dopoguerra, l’immagine dell’America che il cinema trasmetteva a noi ingenui sognatori dei piccoli cinematografi dei paesetti del Sud dove, per venticinque lire, potevamo vedere due film: uno di cow boy e l’altro di Stanlio e Ollio. E se poi avevamo qualche altra liretta da spendere, potevamo perfino comprare una gazzosa ed una manciata di pistacchi dal “gassosaro” che si metteva sotto il proscenio con la sua bagnarola (una bagnarola solitamente usta per il bucato) piena di pezzi di ghiaccio e gazzose che, di solito, compravamo tra un tempo e l’altro. Un’ingenuità quella nostra che, a leggere Inzaghi, abbiamo perso anche noi di riflesso, quando il cinema americano ha cambiato passo, ha messo in soffitta il codice di auto regolamentazione, introdotto da William Harrison Hays, e ha iniziato a guardare in modo più oggettivo al proprio passato, salvo averne nostalgia una ventina di anni dopo quando, con il film “Oltre il giardino” di Hal Ashby, si tenta un’operazione al limite dell’impossibile: riscoprire l’innocenza della politica.

Anche se nel corso del libro Matteo Inzaghi tradisce alcuni dubbi sulla “perfetta armonia” del sistema statunitense, è innegabile che quello americano abbia contribuito alla sprovincializzazione del nostro cinema e, in buona parte, dei nostri costumi. Sì, perché anche se la rinascita del cinema italiano si fa risalire al neorealismo, in realtà esso ebbe radici che affondavano ancora nei settori più avanzati della cultura fascista cosiddetta d’avanguardia: fu sulle ali dell’ottimistico dinamismo del cinema americano del dopoguerra che, secondo me, in Italia ebbe inizio la ricostruzione post-bellica. Infatti, nel 1946, a fronte dei 46 film prodotti nel nostro Paese uscito a pezzi dalla guerra, ne importammo 668 soltanto dagli USA. E poi, a differenza di quelli americani, i nostri film non erano, come si direbbe oggi, in palla con i veri problemi della società italiana del tempo la quale, anche se non era più quella d’anteguerra, non si era ancora accorta di come stava per diventare: se il cinema americano precorse lo spirito di Woodstock, quello italiano non riuscì neppure ad immaginarlo il Sessantotto! Basti pensare che nel 1954, mentre in America Nicholas Ray girava il suo capolavoro sul disagio giovanile “Gioventù bruciata”, in Italia usciva un filmotto gradevole, pieno di buoni sentimenti e di umanità, che però non ebbe il coraggio di lanciare lo sguardo oltre l’immaginario paesino di Sagliena: “Pane, amore e fantasia” di Luigi Comencini.

Ebbene, il libro di Matteo Inzaghi “Mai più così belli”, attraverso una traguardata con la cinepresa della società americana che egli conosce molto bene anche per ragioni private, offre molti spunti al lettore per fare degli utili raffronti, non tanto tra due modi di intendere il cinema, quello americano e quello italiano, o di sapere assegnare un valore pedagogico alla cinematografia, ma addirittura tra due sistemi di valori. La grande differenza è che alla critica cinematografica italiana manca l’aggressività di quella statunitense. Ciò è male? È bene? Questo raffronto Matteo Inzaghi nel libro evita di farlo direttamente ma ci si può lo stesso arrivare, perché con la sua opera è come se avesse scritto due libri, dove in uno analizza, nell’altro solletica il lettore alle risposte per comparazione di una svolta che partita da Hollywood investì tutto il Paese. E per realizzare ciò, oltre alla competenza, ci vogliono una grande nitidezza di vedute, coraggio e anticonformismo, come rimarca a chiusura della sua introduzione il professor Antonio Maria Orecchia: «Il coraggio, alla fine dei conti, di oltrepassare un conformismo consolidato nell’arte, come nella quotidianità per capire la realtà di quegli anni. La base necessaria per provare a comprendere anche quelli successivi».

Se a tutto questo aggiungete la lucidità di analisi, l’anti schematismo dello scrittore e il supporto della sua brillante penna, vi ritroverete tra le mani un eccellente libro e, a ben vedere, anche il perfetto regalo di Natale.

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