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Da Alcide De Gasperi a Di Maio

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Il criterio selettivo della classe dirigente fissato da Andreotti fece polpette della teoria di Darwin secondo la quale, attraverso un processo di selezione naturale, soltanto i “migliori” arrivano al vertice della piramide evolutiva

– Enzo Ciaraffa –

Alla luce di quanto sta avvenendo in questi giorni nei palazzi romani del potere dove, in pratica, chi ha vinto le elezioni ha paura di governare un Paese che per molti aspetti è ormai ingovernabile, appare più che mai evidente il fatto che il grande problema dell’Italia è la selezione della sua classe politica e dirigente.

Tutto è cominciato a partire dal 1945, anno in cui il Paese era a pezzi e chi si accingeva a ricostruirlo, oltre ad essere compromesso col fascismo, nella migliore delle ipotesi, portava in sé le deficienze di un onorevole passato, come dire che se a molti politici e dirigenti del dopoguerra sottraevi la (tardiva) militanza antifascista non rimaneva proprio niente. Purtuttavia l’Italia uscì da quel disastro e, nel contempo, a dar corpo al cosiddetto miracolo economico. Come fu possibile ciò stante la premessa?

Fu possibile perché la democrazia e la ricostruzione poterono contare su alcuni artefici di grande livello come, ad esempio, Alcide De Gasperi ed Enrico Mattei, ognuno relativamente al proprio campo. I guai iniziarono quando s’impose la necessità di dover selezionare i loro successori in un Paese che non possedeva quei vivai della classe dirigente che erano la École Nationale d’Adminstration francese ed il prestigioso Eton College britannico. Qualcuno obietterà che anche l’Italia ha la sua Scuola Nazionale dell’Amministrazione, sennonché v’è un piccolo dettaglio: essa dipende dai governi, come dire da quella classe politica e dirigente che non seleziona affatto. Infatti, aldilà di ogni valutazione meritocratica e di curricula, il cosiddetto politico di razza ha sempre scelto e/o indicato, più o meno esplicitamente, lui stesso il proprio successore.

Senza che se lo proponesse, fu proprio De Gasperi ad iniziare questo modo di (non) selezionare la classe dirigente quando scelse come suo collaboratore in materia economica un oscuro docente piemontese, Giuseppe Pella, che con diversi incarichi volle in tutti i suoi governi, che furono ben otto. Alla morte del suo mentore, nel 1954, il professor Pella tenne a battesimo la più perniciosa delle malattie della Democrazia cristiana (Dc), quella delle correnti: ne fondò una di destra, alla quale aderì un certo Giulio Andreotti. Come dire che, nel giro di pochi anni, la “selezione” era passata dall’immacolato De Gasperi a colui che avrebbe fatto del sottobosco politico la vera ragione della politica e che sarebbe stato coinvolto – nessuna dimostrata in verità – in tutte le trame politiche avutesi in Italia fino alla sua morte, avvenuta nel 2013.

Su Andreotti l’unica cosa certa che possiamo dire è che fece polpette della teoria di Darwin secondo la quale, attraverso un processo di selezione naturale, soltanto i “migliori” arrivano al vertice della piramide evolutiva. Come suo capataz nel Lazio, ad esempio, egli scelse Vittorio Sbardella, ex fascista passato nella Dc, il quale gestì il sottobosco politico con così tanta voracità da essere conosciuto come Lo squalo e che, grazie ad Andreotti, divenne segretario provinciale della Dc e deputato al Parlamento.

Ovviamente lo Sbardella di turno sceglieva i collaboratori col medesimo criterio del suo capo, come dire che se Andreotti sceglieva un collaboratore mediocre A perché non possedeva la capacità di fargli le scarpe questi, a sua volta e per la medesima ragione, sceglieva un ancora più mediocre collaboratore B che, a sua volta, ne sceglieva uno C ancora peggiore. E così fino ad arrivare al capobastone locale E che era, inevitabilmente, il peggio del peggio trovabile sulla piazza. Però questa scala gerarchica dell’involuzione meritocratica, ad ogni elezione, procurava ad Andreotti anche 400.000 voti di preferenza.

Il dramma era che, quando si rendeva vacante il posto del capintesta, avveniva un risucchio dall’alto nel senso che A prendeva il posto dell’Andreotti di turno, B prendeva il posto di A, C prendeva il posto di B ed E prendeva il posto di C … sicché ai vertici del governo del Paese non arrivavano i migliori ma i peggiori!

In verità eravamo partiti con l’intento di riuscire ad arrivare in modo conseguenziale alla domanda finale che – ce ne rendiamo conto – a questo punto è diventata retorica, ma la facciamo lo stesso: «Perché Grillo ha scelto come leader pentastellato Di Maio che, a nostro avviso, è tra i mediocri del movimento e non, invece, Alessandro Di Battista che ha un forte carattere, un’istruzione universitaria, ha scritto tre libri e possiede una buona esperienza internazionale per un giovane di trentanove anni?».

Per la risposta, infatti, si fa prima a ritornare al paragrafo del criterio di selezione inventato da Andreotti.

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