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La napoletana, il colera e il medico svedese

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Uno dei tanti volontari stranieri che nel 1884 prestò la sua opera a favore dei colerosi napoletani fu il medico e scrittore svedese Axel Munthe, che all’epoca viveva a Villa San Michele ad Anacapri. Dobbiamo alla sua penna se ci è pervenuto il ricordo di Annarella, una popolana napoletana che, nel giorno della loro festa, merita di essere ricordata come la quintessenza di ogni mamma

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Nel giorno della sua festa, per ricordare la mamma che tutti abbiamo avuto o che avremmo voluto avere, non vogliamo ricorrere ai soliti, mielosi stereotipi che in questo periodo si sprecano, ma piuttosto alla concretezza del sublime gesto di una mamma-popolana, segnatamente ad un episodio realmente accaduto a Napoli durante l’epidemia di colera del 1884. Ma prima facciamo un rapido excursus storico sulle cause che fino al 1973 fecero ciclicamente ringalluzzire il vibrione del colera a Napoli. E non sono state sempre le cozze crude mangiate dai napoletani con una spremuta di limone sopra.

Infatti, fin dalla sua fondazione, una città multilivello come la capitale del Sud ha avuto il problema di governare le acque di scarico, ma dai romani fino ai governi unitari, nessuno riuscì a progettare il buon drenaggio della città, sicché per secoli i napoletani delle zone alte hanno fatto la pipì addosso a quelli delle zone basse. Soltanto gli ultimi due re borbonici cominciarono a prendere coscienza del problema, ma poi arrivarono i piemontesi e siccome i costi dell’annessione da loro realizzata fu a carico dei napoletani, essi se ne infischiarono della loro città e della sua arretratezza fognaria. Fu così che, un quarto di secolo dopo l’Unità d’Italia, il capoluogo partenopeo viveva ancora in una condizione urbanistica che in alcune zone era indegna di un Paese civile, perché molte strade (come ad esempio quella di via dei Mercanti) erano così strette che vi passava appena un carretto e al suo centro scorrevano liquami maleodoranti di ogni natura e provenienza. La via di Mezzocannone, oggi molto frequentata dagli studenti dell’attigua università, all’epoca era un susseguirsi di fumose botteghe di tintori, i quali versavano nella strada la risulta delle loro puzzolenti tinture, mentre la zona delle Gradelle di Santa Barbara era dominio dell’immondizia e delle prostitute.  Insomma, l’igiene di una cospicua parte della popolazione lasciava molto a desiderare, anche perché essa consumava la propria grama esistenza nei bassi, locali dove il sole, che a Napoli splende per oltre 270 giorni all’anno, neppure si vedeva.

Basti pensare che, a proposito dello smaltimento dell’immondizia, lungo quella che oggi è la bellissima riviera di Chiaia esisteva un punto dove, al tramonto, i napoletani andavano a buttare a mare i loro rifiuti e perciò era conosciuto come la Malora di Chiaia. La conseguenza di quella situazione urbanistica ed esistenziale non poteva che essere un’altra epidemia di colera, che scoppiò nel 1884 facendo, soltanto nelle prime ventiquattrore, mezzo migliaio di vittime. Il morbo si diffuse con spaventosa rapidità nelle zone degradate di San Biagio dei Librai, del Carmine, del Lavinaio e di Monte Uliveto, dove erano stipate in fetidi bassi oltre 100.000 persone. Tra l’altro, per combattere il colera la medicina dell’epoca offriva uno scarso aiuto che, in pratica, si riduceva al chinino, al laudano e alle punture di etere.

Per fronteggiare tale epidemia era mancato (tanto per cambiare…) un preordinato piano di emergenza sanitaria, ma per fortuna alcuni medici stranieri, che amavano risiedere nelle isole del golfo tutto l’anno, vennero a prestare la loro opera in città rimanendo perplessi di fronte alla diffidenza degli ammalati nei loro confronti. Sì, perché alle difficoltà operative e linguistiche si aggiunsero quelle scaturenti dall’indole superstiziosa dei napoletani, che consideravano gli ospedali come l’anticamera del cimitero e i medici pericolosi dispensatori di ciofeche. Basti pensare che, prima di ingurgitare una medicina, solitamente dicevano al medico che gliela stava propinando: «Bevete prima voi…». Insomma, essi avevano più fiducia in San Gennaro e nei riti contro il malocchio che non nella medicina. Evidentemente, la ben meritata sfiducia nel Servizio Sanitario, almeno a Napoli, ha radici molto antiche.

Uno dei volontari stranieri che in quei frangenti prestò la sua opera a favore dei colerosi fu il medico e scrittore svedese Axel Munthe, che all’epoca viveva ad Anacapri. Dobbiamo alla sua penna, grazie al libro “La città dolente”, se ci è pervenuto il ricordo di Annarella del Vicolo di Grottasanta, una popolana napoletana generosa e illetterata di cui purtroppo conosciamo poco, ma quel che conosciamo è, secondo noi, sufficiente per renderla l’emblema delle mamme italiane il giorno della loro festa: madre di un bambino che allattava al seno e moglie di un modesto pescatore, essa si autoproclamò infermiera, guida e interprete (lei che parlava soltanto in napoletano stretto…) del dottor Munthe, sicché gesticolando e gridando si trascinava dietro il perplesso medico svedese, riuscendo a portare un barlume di speranza in posti dove aleggiava la morte.

Mentre l’inverosimile coppia andava in giro per i vicoli di Napoli in cerca di persone da curare, accadde che, in uno dei tanti bassi dove il colera aveva portato via marito e moglie, era rimasta una vecchia lamentosa che recitava il rosario su di una cesta da pescivendolo apparentemente piena di stracci, ma che invece fungeva da culla.

In un primo momento Munthe pensò che l’anziana donna fosse impazzita ma poi, guardando meglio nella cesta, intravide la testolina di una bimba di pochi mesi, la nipote, figlia dei defunti padroni di casa. Le pessime condizioni di quell’esserino erano dovute, più che al colera, ad una carenza nutrizionale perciò, allo scopo di idratarla e nutrirla subito, il medico svedese fece capire alla vecchia di procurare del latte d’asina. Il latte di questo pacifico quadrupede era il più digeribile allora a disposizione e, fino ad anni non molto lontani da noi, nel Meridione si ricorreva ancora ad esso per alimentare i bambini affetti da problemi intestinali. Il tempo passava, anzi pareva sospeso, il prezioso liquido non arrivava e il generoso medico, guardando la folla che per paura del contagio si manteneva prudentemente fuori dall’uscio, non poté non fare una pietosa riflessione: «Poveretti, hanno paura di dare una mano… in fondo essi stessi hanno bisogno di aiuto».

Dopo un certo tempo, la nonna della bimba tornò a mani vuote dalla ricerca del latte d’asina e fu a quel punto che Annarella si guardò prima intorno, poi scostò le persone che si accalcavano fuori dall’uscio e, decisa, si avviò verso la bambina piangente. La prese in braccio e, sorridendole mestamente, si slacciò il corsetto e offrì il proprio seno turgido di latte, destinato al figlio che l’aspettava a casa, all’avida boccuccia di quell’infelice esserino: non pensò, neppure per un attimo, che con quel gesto generoso avrebbe potuto contagiare sé stessa, il marito e il proprio bambino. Non sappiamo se quell’orfanella sopravvisse al colera e neppure se, dopo quell’episodio, Annarella e la sua famiglia ebbero una buona vita, di certo essa merita di rappresentare le mamme italiane il giorno della loro festa, anche perché quel fiotto di latte che riuscì a rianimare il corpicino stremato della bambina della casa dei colerosi proveniva, è vero, dalle sue poppe ma prima era passato per il grande cuore di Napoli. Perciò, ovunque tu sia dolce Annarella, per la festa della mamma, ti giungano la nostra ammirazione e affettuosi pensieri.

(La copertina è di Donato Tesauro)

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