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Stiamo lasciando cadere i giovani dal ponte del nostro tempo

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Uvalde
Non basta alzare le barriere del ponte di Cairate per impedire i suicidi nel Varesotto, o restringere il possesso legale di armi per impedire negli USA follie come quella di Uvalde. Magari fosse così facile. La causa del problema, infatti, è più complessa e si trova altrove, in una malattia che ormai affligge tutte le società avanzate ed ha anche un nome

– Enzo Ciaraffa –

Che cosa accomuna la cittadina di Cairate, in Lombardia, a quella di Uvalde nel Texas? Le accomuna, secondo noi, l’incapacità delle istituzioni statali, sia americane che italiane e di altri Paesi avanzati, ad ammettere con loro stesse che siffatte società, aventi come logica fondante soltanto lo sviluppo della produzione e dei consumi, hanno preteso sempre più sfacciatamente l’adeguamento e l’adattamento della persona umana alle loro leggi e necessità. Sicché in una società di diffuso benessere materiale, così concepita, non v’è più un contesto che, come una volta, crea prodotti e propone consumi in funzione del cittadino, dell’essere umano, ma viceversa subordina questi alle dinamiche del suo sviluppo. Insomma, siamo passati dal controllo degli operai sui mezzi di produzione, di stampo marxista, a quello di produttori e finanzieri: è stato per meglio servire queste cleptocrazie che si è abolito lo statuto dei lavoratori? E il risultato più evidente che tutto ciò ha prodotto sul piano esistenziale? Il mal di vivere, specialmente dei giovani.

Lo scorso 21 maggio un ventinovenne si è suicidato lanciandosi dal ponte di Cairate, tristemente noto come il “ponte dei suicidi”, perché dal 1963 (anno della sua inaugurazione) ad oggi un impressionante numero di persone vi ha posto fine alla vita sfracellandosi nella valle sottostante dopo un volo di quarantacinque metri. A latere di questo triste accadimento, un amico del giovane suicida comprensibilmente addolorato ha scritto una lettera ad alcuni media, alla Regione, alla Provincia e alle amministrazioni comunali di Tradate e Cairate nel cui tenimento il ponte si trova, invocando interventi volti ad impedire il ripetersi di simili tragedie, come la messa in opera di barriere più alte (Fonte: Malpensa24).

Poche ore fa, ad Uvalde, fino ad ieri nota soltanto per essere la capitale mondiale del miele “Huajillo”, un ragazzo ispanico di appena diciotto anni, Salvador Ramos, dopo avere sparato alla nonna, ha fatto irruzione nella locale scuola elementare, armato di fucile, e vi ha ucciso ventuno persone in prevalenza bambini, venendo a sua volta freddato dalla Polizia successivamente intervenuta: una tragedia immane per la piccola cittadina texana! Dopo la tragedia è intervenuto il presidente democratico Joe Biden ad esprimere il cordoglio della nazione e, allo stesso tempo, per prendersela con quella che ha definito la lobby delle armi… è appena il caso di accennare al fatto che i presidenti democratici sono da sempre i migliori clienti di quella lobby dal momento che detengono il primato delle guerre dichiarate dagli USA.

Ma, poi, veramente basta alzare la barriera del ponte di Cairate per impedire i suicidi nel Varesotto oppure restringere il diritto a possedere armi (la difesa è prevista dalla carta dei diritti americana) per impedire follie come quella di Uvalde?

A voler semplificare al massimo, possiamo dire che la causa del problema, purtroppo, è un’altra e congiunge, con un invisibile filo rosso sangue, tutte le società avanzate ed ha un nome: si chiama alienazione, quella che qualcuno, non ricordiamo chi, chiamò anche “tabula rasa delle coscienze” la quale, fin dall’infanzia, diminuisce ed altera il libero ed armonico sviluppo della persona. E allora, come reazione, sovviene prima la ribellione dei giovani alla società di massa, come avvenne a partire dalla fine degli anni Cinquanta degli americani con la beat generation, poi la contestazione globale, come avvenne nel Sessantotto, poi la costituzione dei gruppi sociali, come avveniva fino a qualche decennio fa. Adesso, invece, “la generazione silenziosa”, quella che lasciata sola a gestire fenomeni più grandi di lei, per porre fine alle proprie, solitarie angosce, imbocca spesso i tanti ponti di Cairate sparsi nel mondo o si reca in un’armeria per montare lo “spettacolo pirotecnico” della sua uscita dalla vita. Il motivo che la spinge a ciò, il messaggio disperato che essa ci lascia, come ad Uvalde, con questi gesti estremi è anche abbastanza semplice da compenetrare: «Mi avete ignorato per tutta la vita, adesso vi costringerò ad occuparvi di me!».  

Ma complicando la normativa sulla vendita di armi ai civili od alzare le barriere di protezione di un ponte non serve a niente perché i modi ed i mezzi per uccidere o per uccidersi, che ha a disposizione un essere umano, sono praticamente infiniti e, per raggiungere un tale scopo, non sempre vengono utilizzate quelle che noi classifichiamo “armi”, come se a tale novero non fossero ascrivibili anche i bastoni, le pietre, l’acqua, le funi e perfino il comune sale da cucina. E, dopo quella recente di Uvalde, è giunta recentissima la notizia che un quattordicenne (avete capito bene, un ragazzo di quattordici anni!) del Cantone svizzero del Vallese, durante una lite, ha ucciso la mamma con un’arma bianca non ancora esplicitata dalla polizia cantonale, molto probabilmente un coltello da cucina.

La verità è che, per riconciliare i giovani con se stessi, dobbiamo aprire un varco di umanità nella società tecnologica prima che sia troppo tardi, un varco grazie al quale un ragazzo che perde una persona cara, un giovane disoccupato, un padre o una madre che perdono il posto di lavoro devono divenire un problema di tutta la comunità nazionale, e non soltanto dei diretti interessati lasciati in balia degli eventi.

Ma è ancora possibile farlo dopo che, come effetto indiretto ma immediato, la globalizzazione ha creato un deserto identitario?

Per rispondere in modo credibile a questa domanda bisognerebbe avere a disposizione perlomeno un’armata di sociologi e di psicologi, perciò ci limitiamo a buttare giù un suggerimento tra i tanti che se ne potrebbero dare e che, beninteso, con la politica non c’entra niente. Facciamo entrare – anche a costo di spingervela con i piedi – nello zainetto dei giovani cittadini del mondo anche l’identità culturale nazionale in modo che, forti di tale patrimonio, essi riescano ad affrontare meglio il procelloso mare magnum della globalizzazione, come una nave il cui equipaggio è pronto (e preparato) a salpare in direzione di ogni contrada del mondo perché, poi, ha la certezza di avere un porto al quale far ritorno.

Che è, appunto, il porto della loro identità.

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