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Perché l’Unità d’Italia non arrivò a Mongiana

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Il polo industriale di Mongiana, con tutti i suoi annessi, era per l’epoca un bene avviato complesso siderurgico, sorto ad opera dei Borbone di Napoli. Divenne parte integrante del complesso industriale e militare del Regno delle Due Sicilie e impianto di base per la produzione di materiali e semilavorati ferrosi, poi rifiniti in parte in loco, in parte nel polo siderurgico di Pietrarsa, a Nord di Napoli. Era tanta la produzione e tante le richieste da tutta Europa per la sua qualità che nel 1860 arrivò a dare lavoro a circa due migliaia di operai. E non soltanto calabresi
– Raffaele Ciaraffa* –

Poiché distratto dalle problematiche riguardanti il coronavirus, ho licenziato con un certo ritardo la terza e ultima puntata del servizio riguardante l’annessione del Sud d’Italia che ho complessivamente raccolto in “Cornuti e mazziati”. Ma poi ho divisato che l’Italia deve andare avanti, non può, e non deve, lasciarsi annichilire da un virus perciò riprendiamo da dove ci eravamo lasciati lo scorso 23 febbraio, continuando serenamente a confidare nella buona fortuna del nostro Paese e di tutti gli italiani, da Nord a Sud.

La classe politica post unitaria riteneva più pagante drenare dal Sud   risorse e braccia per evitare che producesse in loco. Il disegno politico che si andava modellando era, infatti, il seguente: Nord fortemente industrializzato in posizione egemone; Sud fornitore di mano d’opera a basso costo e con una economia agricola, anche assistita, che consentisse alle sue genti di allargare i consumi dei prodotti delle industrie del Nord.

A tale riguardo v’è da dire ciò che molti non sanno   neppure oggi e cioè che, dopo l’avvento dell’era berlusconiana, la classe politica riprese a devolvere al Centro e al Nord, nonché alle Ferrovie del Centro Nord persino i FAS – Fondi Assistenza zone Sottosviluppate con artifici e decisioni surrettiziamente giustificate.  E pensare che Matera, città capoluogo di provincia e capitale della cultura nel 2019, è da appena un anno che possiede una stazione ferroviaria degna di tale nome.

In questa cornice la crescita berlusconiana dell’economia sembrava ripartita ma pochi si erano accorti che ci stavamo avviando verso il baratro impegnando con largo anticipo le risorse delle due successive generazioni. Ma è stato a cavallo tra gli anni Ottanta/Novanta che siamo arrivati alla frutta: l’adesione alla moneta unica europea induce l’aumento delle tasse e l’immane controllo del debito pubblico, accumulatosi per tante ragioni note e ignote ai più, ovvero sperperi propiziati a piene mani da una classe politica talmente ingorda da trasformare la politica in efficace strumento di ricchezze personali a mezzo di accordi inquietanti e intrecci perversi tra maneggioni politici e mondo degli affari.

La crisi mondiale, ancora in atto e aggravata dal coronavirus, per giunta ha provocato anche la contrazione dei redditi sui quali, al momento, non cala alcun paracadute di salvataggio. Perde di forza, a questo punto, il luogo comune del Sud sfaticato, imprenditorialmente incapace, corrotto e mafioso, dimenticando che il pulpito dal quale si predica solitamente è anch’esso pieno di così tanto malaffare da suscitare attento, costante interesse da parte della magistratura… a Napoli, la città italiana più aborrita da certi campioni di pulizia, trasparenza e fratellanza, si dice che «Le vere zoccole [prostitute] prima picchiano e poi querelano coloro che le chiamano zoccole».

A proposito, poi, della presunta incapacità del Sud nel campo   industriale, fino a qualche tempo addietro ignoravo, come tanti immagino, che, tra il 1770 e il 1771 in Calabria, precisamente in Mongiana, comune aspro e selvaggio, ricadente oggi nella provincia di Vibo Valentia, sorse un polo industriale, divenuto poi noto, all’estero, come la “Ruhr italiana”. Per inciso, anticipo che, essendo la cultura imprenditoriale del Meridione uno di quegli aspetti sui quali il Nord ci ha cucito addosso l’etichetta della minorità dall’Unità a tutt’oggi, invito chi   volesse approfondire l’argomento a leggere   i testi da me ricordati nella prima puntata.

In breve sintesi, il polo industriale di Mongiana  era   un bene avviato complesso siderurgico, sorto ad opera  dei Borbone di Napoli. Era parte integrante del complesso industriale e militare del Regno delle Due Sicilie e impianto di base per la produzione di materiali e semilavorati ferrosi, poi rifiniti in parte in loco, in parte nel polo siderurgico di Pietrarsa, a Nord di Napoli. Era tanta la produzione e di tale qualità (le richieste dei committenti pervenivano da tutta l’Europa) che, nel 1860 arrivò a dar lavoro a circa 1.500 operai. Travolto dalle vicende legate al processo di unificazione politica della penisola italiana, all’indomani dell’avvento dei “piemontesi” fu assolutamente marginalizzato dai governi post unitari. Ne conseguì un inevitabile e progressivo declino che lo portò a cessare le proprie attività nel 1881.

La Calabria non produceva solo l’acciaio di Mongiana, ma era anche ben nota per le sue industrie della seta. Al di fuori dei confini meridionali erano molto ricercate le vetrerie napoletane, profumi – il celeberrimo bergamotto era calabrese – filatoi, mulini per produrre zucchero, tonnare, cantieri navali, pastifici, le cartiere di Sora e comuni viciniori ciociari. All’epoca, noti nel mondo erano i guanti napoletani e articoli in pelle. Anche queste realtà imprenditoriali furono sacrificate al Moloch industriale del Settentrione.

Facendo un passo indietro e ritornando agli altiforni di Mongiana, quel polo industriale – i cui operai, primi nel mondo, ottennero dall’azienda mutua, assistenza medica e pensione – fu condannato alla chiusura, poiché in base alle nascenti teorie sulle possibilità di sviluppo industriale, gli impianti siderurgici non potevano trovare naturale allocazione in zone montane, ma in prossimità del mare. Il bello fu che, subito dopo Mongiana, furono avviati i lavori di costruzione dell’acciaieria di Terni, comunque tra i monti e per giunta ancora più lontana dal mare. Ciò comportò spese più onerose di quelle che sarebbero state necessarie per riavviare semplicemente la produzione dell’acciaieria calabrese. Insomma, l’imprenditoria scomparve e con essa le esperienze e le capacità industriali delle maestranze del Mezzogiorno. Da allora prese l’abbrivio l’esodo che alla fine porterà via dall’Italia di tredici milioni di meridionali, cui vanno aggiunte le centinaia di migliaia di uomini scomparsi nella Prima e Seconda Guerra Mondiale: il più grande esodo che si sia mai verificato in Europa!

Da questa emorragia umana derivò uno sconvolgimento dell’assetto economico-sociale, il cui primo effetto si evidenziò con   un problema demografico al Sud Italia, la cui popolazione venne ad essere caratterizzata da prevalente presenza femminile. Quindi, si verificò un trapasso da una società marcatamente patriarcale ad una di tipo matriarcale. Ne vennero fuori pure aspetti, moralmente non accettabili, nella condotta di donne lasciate dai mariti emigrati e con la responsabilità di figli da mantenere: il senso della fedeltà coniugale e quello per l’onore familiare collassò sino a pervenire a un punto molto critico, con conseguente incremento di crimini contro il “Buon costume” e l’onore della famiglia”, dei quali spesso le protagoniste erano donne. Insomma, una società che viene privata da un invasore dei suoi orpelli legali, istituzionali e familiari, non può che perdere tutto, non solo la paternità, ma anche la civiltà.

Il Settentrione – che nel 1860, approfittando della scarsa consistenza politica e militare dei Borboni, occupò il Meridione sostanzialmente per la necessità di sanare la sua dissestata situazione economica e finanziaria, anche nella convinzione dell’esistenza di una nostra minorità – ha creato poi il dualismo tra un Nord onesto, laborioso e incorruttibile e un Sud disonesto, sfaticato e corrotto. E lungi dal preoccuparsi di capire, nel corso dell’ultimo secolo e mezzo, chi fosse l’altro italiano, rende ancora oggi problematico il percorso di rinnovamento politico e sociale della Nazione. «Non si tratta di denigrare il Risorgimento…» – sostiene nel libro Il sangue del Sud lo scrittore e giornalista Giordano Bruno Guerri – «… bensì di metterlo in una luce obiettiva, per recuperarlo, vero e intero, nella coscienza degli italiani di oggi e di domani».

Nel 2009, l’allora Ministro dell’Interno Roberto Maroni, intervistato da un quotidiano della provincia di Varese, dichiarò con enfasi che il fenomeno mafia era assente dalla Lombardia. Intanto non è così perché la Lombardia, superando perfino la Sicilia, è la quinta regione italiana per infiltrazioni mafiose nella politica, negli appalti e nella pubblica amministrazione regionale. Peraltro, la microcriminalità “raccoglie” al Sud e poi ricicla i proventi del “raccolto” che grondano sangue al Nord, sicché oggi la vera capitale della ‘ndrangheta è Milano. Qualche anno fa, a Buccinasco, giunse un funzionario della FBI americana per conoscere meglio la ‘ndrangheta. A Milano, non in Calabria, dove ormai le attività delle cosche calabresi sono residuali. E che dire della corruttela politica che ha, ormai, preso solidamente piede anche nel Settentrione? Pure questa è imputabile al Sud?

Cari benpensanti che non amate il Sud, credo sappiate che l’etichetta di inferiorità che per decenni avete appiccicato addosso alle genti meridionali, come ben potete enucleare dai fatti veri che portarono alla piemontesizzazione, scaturirono dall’ingordigia del Nord che fece strame del Sud, imponendogli tutto ciò che si può imporre a una colonia e perpetuando, in tal modo, un divario che, tuttora, soprattutto a livello politico, cerca di mantenere il Meridione in una situazione di soggezione rispetto al Nord. Noi non siamo inferiori a voi. Di massima, gli uomini del Sud, trapiantati all’estero, in contesti caratterizzati da dinamiche politiche ed economiche diverse, hanno dato il meglio di sé. Noi meridionali abbiamo ricevuto dalla storia un destino diverso dal vostro: voi, al Centro e al Nord le Signorie e le Repubbliche Marinare che, con i loro traffici, controbilanciarono il potere delle locali aristocrazie, lo circoscrissero, ne limitarono la potenza e finirono con il renderle innocue. Noi, invece, un feudalesimo eliminato per legge soltanto nel 1812, i cui devastanti strascichi sono stati di fatto ancora operanti sino a sessantanni fa. È questo che ha fatto la differenza perché la diversità degli uomini non è nell’antropologia ma nella psicologia sociale, non è nell’uomo ma nella sua condizione. Il premio Nobel Amartya Sen, economista e filosofo, al riguardo ha scritto che «L’uomo è quello che gli è permesso di essere».

In questa direzione è mutato l’atteggiamento di certe forze politiche verso tutti quelli che non appartengono alla gente padana ma c’è ancora tanto da lavorare per fare delle due Italie una soltanto nel nuovo scenario geopolitico planetario… agiamo nel nostro Paese ma cerchiamo di pensare con il mondo! Soltanto la reciproca comprensione delle proprie ragioni aiuta la nostra crescita di italiani e di cittadini del mondo. Un tunisino che viveva a Palermo così rispose, qualche anno fa, alla professoressa Franca Pinto Minerva autrice del libro “Mediterraneo”: «Il mio Paese? È quello che mi accetta!».

E noi, gente del Sud, abbiamo accettato lui e tanti altri, memori di ciò che tantissimi nostri connazionali hanno sofferto quando, nel secolo scorso, a causa della sconsiderata politica del Nord, furono costretti a lasciare tutto per tentare di ritrovare altrove qualche segno di speranza nel futuro. Ma oggi che la minaccia del globalismo economico si è fatta più pressante, con le pietre delle rovine di Mongiana abbiamo il dovere di ricostruire un’Italia nuova. E se neppure stavolta ci riusciremo, la colpa non sarà del Nord o del Sud ma di tutti noi. Quale che sia la latitudine alla quale viviamo.

* Colonnello (r.) dei Carabinieri
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