LOADING

Type to search

Notizie Principali

Milan, l’è on gran Milan anche se multicolore

Share

Le insegne dei bar, dei ristoranti, delle pizzerie, dei negozi di telefonia e di elettronica, dei supermarket, tutto ormai è made in Cina, Taiwan, Egypt, Tunisia, Turkey, Bangladesh ed è difficile incontrare qualcuno col Corriere sotto il braccio

– Sergio Belvisi –

Ero a Milano mentre dalla stazione centrale tentavo di raggiungere a piedi via Jacopo Sansovino. La giornata era uggiosa e pur se cadeva una pioggia sottile sottile il piazzale della stazione era un formicaio di persone: chi aspettava l’autobus, chi consultava il cellulare, chi chiedeva informazioni, chi fermava le auto per attraversare la strada, chi dormiva sulle panchine malamente coperto. Passai proprio in mezzo a loro tenendo ben stretta la borsa a tracolla e gli occhi aperti, non c’era un bianco tra loro, davvero difficile trovarvi un milanese!

Quando mi lasciai il piazzale della stazione alle spalle iniziai a dare un’occhiata alle vetrine dei negozi ed alle loro insegne, per fermarmi al primo bar che incontrai e ordinare un caffè, senza sapere che mi sarei trovato al centro di una improvvisazione teatrale col barista, un ragazzo con gli occhi a mandorla in tenuta nera e papillon giallo: «Plego signole, liscio o colletto?».

Avventore, cioè io: Invece di rispondergli gli feci a mia volta una domanda: «Cinese, vero?». E fu a quel punto che egli, infrangendo lo stereotipo che vuole i figli del dragone poco loquaci, mi rispose con una generosità di particolari.

Barista: «No, di Singapole, in Italia da five years con mia solella Woo».

Avventore, cioè io: «Sei soddisfatto del tuo lavoro?».

Barista: «Molto, signole, soplattutto dal veneldì alla domenica pelchè incasso buono anche se tolno a casa molto taldi…».

Avventore, cioè io: «Mi complimento con te, sei educato, loquace e il tuo locale è accogliente e pulito. Buona giornata».

Quando ripresi il cammino l’immagine di quel volto tanto cortese mi rimase impressa nella mente mentre mi domandavo quanti stranieri avessi incrociato fino a quel momento, centinaia, migliaia di varie etnie e dai tratti e colori più disparati. Le insegne dei bar, dei ristoranti, delle pizzerie, dei negozi di telefonia e di elettronica, dei supermarket, tutto ormai era made in Cina, Taiwan, Egypt, Tunisia, Turkey, Bangladesh… mi trovavo proprio a Milano? Avrei incontrato un milanese doc, qualcuno col Corriere della Sera sottobraccio? Avrei risentito la caratteristica parlata dialettale del nonnetto o del cummenda?

Al ritorno passai nei pressi di un mercato rionale all’aperto, i rivenditori stavano smantellando le bancarelle, nessuno prestava attenzione ad un anziano signore curioso che vagava qua e là come un accattone in cerca di qualche scarto di frutta o di verdura. Un addetto al servizio di pulizia, algerino o marocchino, mi indicò di uscire da una stradina recintata lungo la quale un cartello informava che in quel mercato operavano 41 esercenti dei quali 35 stranieri e soltanto 6 italiani… anche lì eravamo in minoranza! Un agente della Polizia urbana chi mi stava osservando capì il mio smarrimento e allargò le braccia. Accanto a lui un vecchio signore col respiratore artificiale fissato alla meglio ad un piccolo carrello arrugginito non riuscì a trattenere un commento: «Milano non è più Milano, prima sono arrivati i terroni, ora questa gente che vedi, dimmi dove possiamo andare, così non si può più tirare avanti. Mi chiedo come possa Salvini fare un censimento, questi spuntano fuori come le formiche».

Poco più in là decine di bambini vocianti giocavano in un piccolo campetto recintato, una rete metallica divideva il terreno in due rettangoli uguali, da una parte i bambini di pelle bianca, dall’altra quelli di colore… ero palesemente indignato! Mi aiutò a capire un giovane padre italiano: «Non si preoccupi, la suddivisione è dovuta al fatto che da una parte giocano a calcio, dall’altra a cricket o a baseball. Porto spesso il mio bambino a giocare qui perché incontra i suoi amici, la maggior parte dei quali non sono italiani ma lui non si fa nessun problema». Mentre mi indicava un bimbetto biondo.

Il vero tesoro di quel mio giorno milanese non fu il premio che avevo appena ritirato per una mia poesia ma la lezione di tolleranza e di fratellanza che mi era venuta da un bimbetto biondo e con gli occhi azzurri. Quel bambino non lo incontrerò mai più, eppure sono certo che diverrà un adulto equilibrato ed amico del suo mondo.

Tags:

Leave a Comment

Your email address will not be published. Required fields are marked *