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La dittatura globale dal buco della serratura informatica

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I nostri dati in possesso dei colossi dell’hi-tech sono di estremo interesse non tanto per lo sfruttamento commerciale, che già muove un inimmaginabile business, ma anche per indagini e controlli polizieschi che, anche se esercitati da Paesi in cui vige una consolidata democrazia, risulta essere un tantino inquietante
– Patrizia Kopsch* –

Chi l’avrebbe mai detto, anche solo dieci anni fa, che i social media sarebbero stati sempre più al centro della scena, non solo per quanto concerne le relazioni interpersonali ma anche sul fronte economico, sociologico e politico.

Infatti, dopo la guerra dichiarata dal presidente Trump ai social media e la campagna #stophateforprofit lanciata dagli attivisti per i diritti civili al fine di contrastare l’ondata di odio e di violenza verbale che si è riversata sulle varie piattaforme dopo i fatti di Minneapolis dello scorso 27 maggio, dove un afroamericano, George Floyd, è stato ucciso dalla polizia, si è delineato nelle ultime quarantottore ore un fronte davvero preoccupante sul tema dei diritti umani: quello della nuova  legge sulla sicurezza nazionale imposta dal governo cinese a Hong Kong e lo stop alle richieste governative dei dati sui netizen (persone che partecipano attivamente alla vita di Internet) nel caso i cittadini dell’ex colonia britannica, gli hongkonghesi.

Facebook, Whatsapp, Twitter, Google, Telegram, Linkedin e Zoom hanno, infatti, confermato di non voler rispondere più alle richieste di informazioni sui propri utenti da parte del governo e delle autorità di Hong Kong, per rispetto della libertà di espressione e dei diritti civili. Ma la lista dei giganti dell’hi-tech si è allungata e anche Microsoft si è aggiunta alle altre case della tecnologia informatica, le quali hanno dichiarato di voler valutare le implicazioni della nuova legge e verificare le eventuali violazioni dei diritti umani in essa contenuta, prima di prendere una decisione definitiva.

Ma non rispondere più alle richieste significa che, fino ad oggi, queste richieste hanno trovato risposta? Parrebbe di sì. Come si legge nell’articolo del corrispondente da Pechino di Repubblica, Filippo Santelli, pubblicato lo scorso 7 luglio, negli ultimi sei mesi del 2019 Facebook ha ricevuto da Hong Kong duecentoquarantuno richieste di informazioni, e ne ha accettato il 46%. Tanto per avere un metro di paragone, quelle ricevute negli Usa sono state, nello stesso periodo, cinquantunmila e la percentuale di quelle accettate è stata dell’88%. Evidentemente questo genere di richieste non è insolito, tanto che Facebook ha dovuto elaborare un sistema, un protocollo di valutazione delle domande di accesso ai dati che viene applicato a livello internazionale. È evidente che i dati in possesso dei colossi dell’hi-tech sono di estremo interesse non solo per lo sfruttamento commerciale ma anche per indagini e controlli polizieschi che, anche se esercitati da Paesi in cui vige una consolidata democrazia (e non è il caso della Cina…), risulta essere un tantino inquietante.

Insomma, l’ombra del Grande Fratello di orwelliana memoria incombe su tutti noi e perciò, ancora una volta, prima di condividere o pubblicare qualsiasi cosa, meditate gente, meditate…

* Giornalista free-lance, blogger, formatrice digitale

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