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Era un dolce padre, mio padre

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mio padre
M’è caro ricordare le estati della mia fanciullezza, il tempo delle vacanze e di ferie per mio padre dal Comune di Napoli dove aveva trovato impiego dopo essere stato congedato dai Carabinieri per ragioni di salute. All’epoca vivevo in un paesino agricolo, che non era molto diverso da quello immaginato da Aldo Palazzeschi nella poesia Rio Bo

– Enzo Ciaraffa –

Tra i ricordi più belli che serbo nella memoria e nel cuore v’è la figura di mio padre, benché egli sia venuto a mancare esattamente mezzo secolo fa: si badi bene, non ho scritto mio padre ma la figura di mio padre e – almeno per me – la differenza tra le due espressioni non è di poco conto. Infatti, se in un tempo relativamente breve ero riuscito a metabolizzare la sua scomparsa fisica in quanto padre, non mi sono mai rassegnato alla scomparsa di una ispirazione, di un modello di vita. Beninteso che mio padre non era una persona eccezionale, non aveva realizzato nessuna grande impresa se non quella di educare, senza alcuna imposizione pseudo pedagogica, i figli al culto del servizio e del dovere intesi nella massima ampiezza del loro significato: verso il proprio Paese, verso il prossimo, verso la religione, verso la famiglia, doveri verso le donne. Sì, avete capito bene, mio padre fu un delicato femminista ante litteram sicché, grazie al suo esempio, a noi figli (eravamo tre maschi) non sfiorò mai l’idea che si potesse mancare di riguardo o, peggio, fare del male a una donna.

Strano prodotto degli ultimi respiri dell’Ottocento, mio padre.

Classe 1908, secondo figlio di agricoltori del casertano, giovanissimo si era arruolato nei Carabinieri Reali dove acquisì una dimensione etica dalla quale non sarebbe mai più uscito nel corso di tutta la sua vita, neppure quando fu pensionato per ragioni sanitarie connesse al servizio svolto in guerra. Non fu mai fascista e, anzi, fu destinato a prestare servizio, per tre anni, all’isola di Ponza quale punizione per aver strapazzato un caporione delle camicie nere, eppure si offrì per ben tre volte volontario nelle guerre dichiarate dal fascismo.

Difficile da comprendersi, mio padre.

Ricordo, in particolare, le estati della mia fanciullezza, tempo delle vacanze e di ferie, per lui, dal Comune di Napoli dove aveva trovato impiego dopo essere stato congedato dall’Arma come semplicemente lui la chiamava. All’epoca vivevamo in un paesino agricolo che non era molto diverso da quello immaginato da Aldo Palazzeschi nella poesia Rio Bo: una piazzetta alberata con una vasca al centro, due chiese, una scuola elementare, due bar, una cantina e due circoli ricreativi, dei quali uno fungeva anche da locale sezione della Democrazia cristiana. Il paese era tutto qui.

Eppure a me sembrava grande, anzi era tutto il mio mondo perché conteneva le cose che amavo, quelle che bastavano per farmi sentire felice nonostante la vita non fosse facile, a quei tempi, neppure per noi bambini perché soggetti ancora a molte malattie mortali che oggi si curano con una pilloletta o si evitano con una vaccinazione.  

La giornata di vacanza estiva di un bambino del Sud delle famiglie piccolo borghesi (ma non tanto borghesi da potersi permettere una villeggiatura) negli anni Cinquanta del Novecento era, grosso modo, uguale dappertutto: sveglia, zuppa di latte e subito in strada assieme agli altri bambini che se ne impipavano dei ceti, poi ritorno a casa per il pranzo, controra e, nel tardo pomeriggio, con l’arrivo della frescura, ritorno in strada a giocare. Al pomeriggio, però, la liturgia per me era diversa perché uscivo da casa tenuto per mano da mio padre che, camicia immancabilmente bianca con le maniche rimboccate e la giacca nell’incavo del braccio sinistro, mi accompagnava a giocare facendomi mille raccomandazioni prima di lasciarmi correre tra gli altri bambini vocianti sulla piazza e lui andare a fare il tressette con i suoi amici nella sede dell’accennata sezione democristiana, che dava proprio sul teatro dei nostri giochi. Sicché, tra un “chiamo” e un “passo” riusciva a tenermi d’occhio.

Le sue esortazioni prima di allontanarsi erano principalmente quelle di non calpestare le aiuole dei giardinetti pubblici per farci rincorrere dagli unici due vigili urbani del paese anche piuttosto anzianotti, di non fare il bagno nudi nella vasca dei pesci e, soprattutto, di non sporcarci “…sennò la mamma chi la sente”. In quei momenti che, parole sue, mi parlava da uomo a uomo, avvertivo grande complicità tra di noi, assieme al profumo di lavanda della camicia, di alcool misto ad acqua (il dopobarba dell’epoca) e della saponetta Palmolive con la quale faceva le sue abluzioni.

Come odorava di bucato mio padre!

E così i miei meriggi passavano tra giochi come zomba-cavaliere, la tana e il castello e qualche partitella a calcio con un malmesso pallone, rimediato chissà da chi. Io eccellevo nel ruolo di portiere senza porta, forse perché avevo realizzato subito che, se abbrancavo il pallone, vinceva la mia squadra. Oddio, anche da adulto le mie competenze sulle regole del calcio non sarebbero andate oltre quel livello di conoscenza.

Al Sud d’Italia rabbuia abbastanza tardi sicché anche di prima sera, v’era ancora abbastanza luce per continuare a giocare in piazza pur se i carretti agricoli e qualche trattore erano già rientrati dalla campagna il che voleva dire che era ora di cena. Infatti, intorno alle ore 20,00 era un tutto aprirsi di porte e di finestre dalle quali erompevano sollecitazioni a rientrare per i più piccoli del tipo: “Enzù, Pascalì, Marì, venitevi a lava’ che imma ‘a mangia’!”.  

Era in quel momento che mio padre usciva dalla sezione della Democrazia cristiana con in una mano un panfrutto con la granella e nell’altra una bottiglia di chinotto che sosteneva di aver vinto apposta per me. Oggi, invece, penso che li mandasse ad acquistare dal custode della sezione.

Poi, dopo avermi dato uno sguardo indagatore per capire se avremmo superato indenni l’ispezione della mamma una volta rientrati a casa, mi prendeva la mano e – lui gigante odorante di bucato e io bambino insudiciato – ci incamminavamo verso casa dopo avere entrambi passato il nostro pomeriggio a giocare.

 Io seriamente però, magari troppo seriamente. E, purtroppo, si vedeva!

Forse era per tale ragione che, quando rientravamo a casa, mio padre era solito usare una tattica diversiva che consisteva nel distrarre mia madre con qualche amenità paesana, ciò per far sì – credo oggi – che essa distogliesse l’attenzione dalle mie miserevoli condizioni mentre sgattaiolavo a cambiarmi prima di mettermi a tavola. Devo dire che l’azione combinata quasi sempre riusciva.

Divenni grande e non giocai più sulla piazza del paese ma, fin quando visse, mio padre non smise mai di essermi complice, di aiutarmi a superare la rassegna di una signora molto più esigente della mia mamma: la vita.

Era un grande uomo mio padre.

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