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Caporetto

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Il lavoro d’infiltrazione a Caporetto fu svolto inizialmente da reparti tedeschi che potremmo definire grandi pattuglioni, uno dei quali era comandato da un giovane tenente che nel corso della storia del nostro Paese incontreremo ancora: Erwin Rommel. Il 24 ottobre del 1917 quei reparti così atipici per l’epoca, che oggi chiameremmo semplicemente di assaltatori, utilizzarono la tattica di tener bloccati i difensori dei capisaldi italiani con le mitragliatrici, mentre il resto della forza li aggirava per prenderli alle spalle ed eliminarli

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Domenica prossima ricorrerà un nefasto anniversario, quello della disfatta di Caporetto, una località situata tra Plezzo e Tolmino, un comune oggi appartenente alla Slovenia col nome di Kobarid, dove all’alba del 24 ottobre del 1917 tedeschi e austriaci aprirono una grande falla nello schieramento italiano e per poco non ci sconfiggevano irrimediabilmente. Ma come si arrivò a Caporetto? A riguardo i pareri sono diversi e molto discordi ma, a distanza di oltre un secolo dall’accadimento, forse è giunto il momento di parlarne senza preconcetti.

Dopo la Grande Guerra, in verità, vi furono varie inchieste per accertare perché la 2^ Armata del generale Luigi Capello si fosse liquefatta in poche ore, facendo sì che l’iniziale, e tamponabile, infiltrazione dei tedeschi si trasformasse in sfondamento. Furono, però, tutte inchieste “all’italiana” come dire accomodanti verso l’amico degli amici come Pietro Badoglio, che fu in realtà uno dei principali responsabili; furono, invece, particolarmente severe verso Cadorna e lo stesso Capello, due perfetti parafulmini sui quali scaricare le frustrazioni dello Stato Maggiore che, nonostante le gravi inefficienze dimostrate, voleva intestarsi una vittoria pulita. Pertanto, ci fidiamo più delle parole di coloro che la vissero direttamente quella battaglia, come il generale Emilio Faldella, all’epoca sottotenente, che scrisse sopra questo argomento il libro “La grande guerra”. Le cose, secondo quanto scrisse Faldella, andarono all’incirca così: Cadorna intendeva approntare uno schieramento difensivo, mentre il co­mandante della 2^ Armata, il generale Luigi Capello, propendeva per quello offensivo. Alla fine si scelse di attuare uno schieramento idoneo per una controffensiva, salvo, tre giorni prima di Caporetto, il tentativo di ritornare al progetto iniziale. Insomma, quando gli austriaci e i tedeschi scatenarono quelle che è anche ricordata come la 12° battaglia dell’Isonzo, Cadorna non sapeva con quale schieramento la stava combattendo!

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Nel frattempo, il comando austriaco ideò un’azione contro l’ala sinistra della 2^ Armata italiana e, tal proposito, i loro alleati tedeschi dirottarono sul nostro fronte sette divisioni scelte, ben munite di artiglieria. Il progetto austriaco era, inizialmente, quello di costringere gli italiani a sloggiare dalle posizioni conquistate nella primavera precedente, ma i tedeschi, ampliando la manovra, progettarono di risalire il fondovalle dell’Isonzo per assestare il colpo mortale al Regio Esercito. Pensavano, essi, di chiudere definitivamente la partita con noi e poter, così, risucchiare parte delle truppe austriache sul versante francese, dove iniziavano a essere in affanno a causa dell’arrivo degli americani e dei loro corposi rifornimenti.

Il lavoro d’infiltrazione a Caporetto fu svolto inizialmente da reparti tedeschi che potremmo definire grandi pattuglioni, uno dei quali era comandato da un giovane tenente tedesco che nel corso della nostra storia patria incontreremo ancora, Erwin Rommel. Il 24 ottobre del 1917 quei reparti così atipici per l’epoca, che oggi chiameremmo semplicemente di assaltatori, utilizzarono la tattica di tener bloccati i difensori dei capisaldi italiani con le mitragliatrici, mentre il resto della forza li aggirava per prenderli alle spalle ed eliminarli uno alla volta, e in contemporanea la loro artiglieria spianava la strada per proseguire saturando ristretti segmenti del nostro schieramento, riuscendo alla fine ad aprire una breccia più grande delle altre, tra Tolmino e Plezzo. Fino a quel momento non era stato un vero sfondamento ma un tentativo di aggiramento, anche se ancora lontano dal realizzarsi. I comandanti italiani, però, si convinsero di essere stati aggirati già prima che si esaurisse la manovra avversaria e perciò andarono nel panico totale, riuscendo a trasmetterlo alle truppe che in molti casi si sbandarono. Per fortuna, pur divenendo una severa sconfitta militare, Caporetto non assunse i connotati dell’irrimediabile disastro perché i nostri soldati seppero, nel complesso, attingere ancora una volta al loro multiforme coraggio, un coraggio istintivo, della disperazione, lo stesso del topo in trappola se vogliamo, ma pur sempre valoroso coraggio.

Infatti, nonostante stessero arretrando non meno di 400.000 militari, possiamo dire che, nel complesso, i nostri fantaccini reagirono a Caporetto meglio della classe dirigente, sia quella in divisa, sia quella in borghese.

Badoglio, che nel momento cruciale non si trovava al posto di comando, mentre il disastro scorreva sotto i suoi occhi, si accasciò con la testa tra le mani. E ne aveva ben donde! Se – come gli era stato ordinato – avesse provveduto ad estendere l’ala sinistra del XXVII Corpo d’Armata fino al fondovalle dell’Isonzo, avrebbe potuto intercettare e fermare a cannonate i tedeschi che vi sfilavano in direzione di Caporetto. Peraltro, Badoglio aveva personalmente ordinato al colonnello comandante l’artiglieria di non azionare i cannoni senza un suo preciso ordine. Ironia della sorte, il colonnello che non bombardò i tedeschi per ordine del suo comandante, di cognome si chiamava… Bombardiere. Ma chi era riuscito a tracciare un sintetico quadro della pochezza del nostro comando in una lettera alla moglie fu il tenente ultraquarantenne trentino Cesare Battisti, che pochi giorni dopo fu catturato e impiccato dagli austriaci: «Chi impera qui, stando a valle, senza conoscere né capire nulla dell’alta montagna (alla quale mai sono arrivati) è una combriccola di alti ufficiali inetti, vecchi, paurosi, che preferiscono far nulla per la paura che hanno di fare dei fiaschi, con danno delle loro carriere».

Non deve meravigliare, perciò, il fatto che Cadorna, dopo avere scaricato la colpa del disastro di Caporetto sulla 2^ Armata (il che non era elegante ma ci poteva stare se, però, non fosse stato lui il comandante in capo…), mandò a cagare il ministro per l’Assistenza ai soldati, Leonida Bissolati, allorché questi, a disdoro del nome che portava, gli aveva proposto di suicidarsi assieme a lui per non sopravvivere alla sconfitta che ormai si dava per certa. Ovviamente Bissolati non si suicidò, tantomeno Cadorna. In ogni caso, il quadro che in quei frangenti emergeva non deponeva a favore della saldezza dei nervi di chi aveva la responsabilità della conduzione della guerra, fatta eccezione per Cadorna. Infatti, nonostante i suoi tanti errori, nonostante le camarille che si erano costituite presso il suo Comando, il generalissimo fu l’unico in quella débâcle militare a mantenere il sangue freddo, riuscendo così ad approntare, in breve tempo, uno schieramento difensivo lungo il corso del fiume Piave, contro il quale si sarebbe esaurita l’offensiva austro-tedesca, fino a quando, a giugno del 1918, gli austriaci ripasseranno il fiume e incominceranno a ritirarsi. Badoglio, invece, come sottocapo di Stato Maggiore di Diaz sarebbe stato di lì a poco ritenuto uno degli artefici della vittoria finale… paradossi di un Paese già di suo paradossale dove la storia, lungi dall’essere presa ad insegnamento, si replica sempre con disastrosa monotonia e spesso con i medesimi protagonisti.

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La verità è che la prima grande guerra del XX secolo fu qualcosa che andava oltre la comprensione di Cadorna, di Badoglio e dello stesso Diaz in fondo, perché per nascita, per formazione culturale e per preparazione essi erano figli dell’Ottocento. Questo limite, culturale più che professionale, condizionò non poco l’operato di Badoglio il quale, in tutti gli anni in cui ne fu a capo, non si preoccupò per niente di ammodernare le forze armate italiane, sicché sotto la sua guida il 10 giugno del 1940 ci infilammo in una guerra che avrebbe visto l’esordio della bomba atomica con un esercito a dir poco da Prima Guerra Mondiale.

In questa non bella ricorrenza abbiamo volutamente lasciare per ultimo il nostro “fantaccino” e gli ufficiali subalterni con lo scopo di più degnamente ricordarli, specialmente quei 160.000 che tra caduti, feriti e prigionieri si sacrificarono consapevolmente per limitare i danni dello sfondamento di Caporetto. E lo faremo senza retorica (la retorica non si addice ai morti), citando soltanto tre nomi per tutti, nomi di uomini e combattenti straordinari pur non avendo la vocazione di guerrieri: Vittorio Montiglio, Ernesto Nathan e Arrigo Biego.

Montiglio, un ragazzo nato in Cile dal console italiano in quel Paese e che, nel 1917 all’età di quattordici anni, s’imbarcò clandestinamente su di un mercantile e riuscì ad arrivare in Italia dove si fece arruolare falsificando i documenti. Il bello fu che il raggiro riuscì così bene che lo mandarono pure a fare il corso per ufficiali di complemento. Nel 1918 assunse il comando di un reparto di Arditi, alcuni dei quali avevano l’età di suo padre. Ovviamente fu decorato di medaglia d’oro al valor militare.

Nathan, che era stato sindaco di Roma fino a qualche anno prima, nel 1915 si arruolò volontario e combatté valorosamente sul Col di Lana. Dov’era il fatto straordinario? All’epoca Nathan aveva la bellezza di settant’anni!

Arrigo Biego, tenente del 22° Fanteria, prima di cadere in combattimento a Monfalcone, così scriveva alla fidanzata: «Com’è brutto uc­cidersi sotto questo cielo, davanti a questo mare, in questa notte d’indicibile poesia, in cui la natura sembra farsi più bella per di­laniare il cuore dei morenti, con l’ultimo sorriso, come d’insaziabile sirena! Ma tu, o Patria, lo vuoi? Ebbene sia!». La Patria di Montiglio, di Nathan e del Tenente Biego è ancora lì, ad attendersi da noi se non proprio il sacrificio della vita, almeno dei comportamenti non ignominiosi, come cittadini e come classe dirigente, perché la Caporetto delle nazioni è sempre dietro l’angolo.

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