Ciao piccola Indi

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Immaginiamo con profonda tristezza il terrore provato da Indi quando, pian piano, le venienti ombre della morte le hanno sottratto quelle poche cose che ormai le erano diventate familiari come i medici, le infermiere, il viso di mamma e papà, fino a quando le sue annaspanti manine protese verso i loro volti chini su di lei si sono chiuse per sempre

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La piccola Indi Gregory, la bambina inglese di otto mesi affetta da una rara e grave malattia delle cellule, è morta comunque prima del tempo che madre natura le aveva assegnato perché così disposto dalla Corte d’Appello britannica che lo scorso 11 novembre aveva ordinato il distacco delle macchine che la tenevano in vita e lo stazionamento in una di quelle anticamere della morte che chiamiamo con un beffardamente rassicurante nome: hospice. Questo nonostante la disponibilità a farsi carico del suo caso da parte dell’ospedale “Bambino Gesù” di Roma. Infatti, quei parrucconi dei giudici inglesi dall’alta corte si erano opposti anche al trasferimento in Italia della piccola moritura, adducendo a motivazione il fatto che la soluzione prospettata dal nostro governo era contraria alla Convenzione dell’Aia del 1996. Paradossalmente, anche la decisione del governo italiano di concedere la cittadinanza alla piccolina e la conseguente richiesta di poterla ricoverare a Roma erano state motivate con i disposti di tale Convenzione. Ma, indipendentemente da chi avesse ragione a riguardo della suddetta Convenzione, che pare di capire nel particolare caso si sia rivelata piuttosto “estensiva”, siamo semplicemente e assolutamente contrari al fatto che un giudice possa stabilire se e quando un malato debba morire.

La malattia della quale soffriva la piccola Indi era irreversibile? La diagnosi degli specialisti inglesi è stata giusta al di là di ogni ragionevole dubbio? Al Bambino Gesù si poteva fare qualcosa per lei? Molto probabilmente no, e tuttavia se il suo cuore batteva, se i suoi occhi vedevano, se era in grado di sorridere a mamma e papà, nessuno doveva arrogarsi il diritto di aggiungere al suo calvario ed a quello dei genitori l’esperienza che tutti i bambini del mondo temono di più: essere abbandonati. E sì, perché noi adulti siamo in grado di razionalizzare la morte, di mettere in conto di dover prima o poi andarcene da questo mondo, ma una bambina di otto mesi in quelle condizioni non è certo in grado di farlo, specialmente se vive di percezioni non completamente mediate dal cervello. Pertanto, immaginiamo il terrore provato da Indi quando, pian piano, le venienti ombre della morte le hanno sottratto quelle poche cose che ormai le erano diventate familiari come i medici, le infermiere, il viso di mamma e papà, fino a quando le sue annaspanti manine in cerca dei loro volti si sono chiuse per sempre. Povera piccolina, probabilmente è morta terrorizzata, da disperata: le potevano almeno consentire di morire a casa sua, nel calore della famiglia.

Ed è soprattutto questa mancanza di sensibilità che non perdoniamo ai giudici inglesi i quali, a nostro modo di vedere, nella loro decisione si sono attenuti più all’eugenetica nazista che non alla visione etica di una società passabilmente civile, la quale, anche quando prevede la facoltà individuale di non volerlo un figlio, dovrebbe avere come principio fondante dei suoi ordinamenti la tutela della vita o, se volete, della buona morte. Sennò il consorzio societario diventa una finzione giuridica.

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