Da dea-madre al femminicidio

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Le associazioni e gli enti onlus che in Italia si occupano di fornire protezione ed assistenza alle donne oggetto di violenza sono decine di centinaia, associazioni che fanno un lavoro indubbiamente meritorio ma che, in un certo senso, testimoniano anche il fallimento dello Stato, e di tutte le sue strutture, nella lotta alle diverse forme di violenze muliebri. E magari finissero qui le responsabilità dello Stato!
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Domani si celebrerà la “Giornata mondiale contro la violenza sulle donne”, istituita dall’Onu nel 1999. Sempre l’Organizzazione delle nazioni unite, in seguito a quella data, istituì anche la United nations commission on the status of women (Uncsw) ovvero la commissione delle Nazioni unite sullo status delle donne. Sorvoliamo pure sulla credibilità di tale commissione, visto che ne fa parte perfino l’Arabia Saudita, che occupa – pensate! – il 141° posto su di un elenco di 144 nazioni per quanto riguarda i diritti delle donne. In questo Paese, infatti, alle donne che sgarrano appena un pochino è riservata la fustigazione, la lapidazione o il taglio della testa con una scimitarra. Premesso ciò, cerchiamo di capire, con estremo disincanto, perché all’alba del terzo millennio le donne sono ancora il principale bersaglio della violenza maschile.

Intanto bisogna dire che nei rapporti uomo-donna gioca un ruolo molto importante un sottovalutato riflesso ancestrale, un antico meccanismo di difesa poiché, contrariamente a quanto oggi si crede, la società primordiale fu di tipo matriarcale, giacché alle donne era riconosciuto un ruolo divino, in ragione del fatto che da esse nasceva la vita in modo allora ritenuto misterioso. Ciò è testimoniato dai diversi reperti di figure femminili risalenti al Neolitico, tutte riconducenti al culto di una grande dea madre, come le statuine di creta e di ferro ritrovate a Willendorf, a Creta, a Ninhursag e in Sardegna.

Miniatura medievale raffigurante “Marito che picchia la moglie”, Zurigo, Zentralbibliothek

Sicché le comunità del Neolitico erano governate da donne-divinità depositarie della fertilità le quali, all’approssimarsi della stagione primaverile, concedevano ad alcuni giovani, prescelti dal clan, di accoppiarsi con loro, in modo che essi fossero “toccati” dalla magia prima di essere sgozzati, affinché il loro sangue fertilizzasse i campi e favorisse la crescita di abbondanti messi.

Il rapporto uomo-donna cambiò radicalmente, anzi fu lo stesso assetto societario a cambiare, quando gli uomini furono in grado di mettere la gravidanza in relazione col coito, assegnando a se stessi un più importante ruolo nella procreazione e, quindi, nella comunità cui appartenevano. Fu così che si connaturò in essi quello spirito di revanche che ancora oggi pare non essersi placato, visti gli episodi di violenza sulle donne di cui è piena quotidianamente la cronaca nera.

Le associazioni e gli enti onlus che in Italia si occupano di fornire protezione ed assistenza alle donne oggetto di violenze sono decine di centinaia, associazioni che fanno un lavoro indubbiamente meritorio ma che, in un certo senso, testimoniano anche il fallimento dello Stato e di tutte le sue strutture nella lotta alle diverse forme di violenze muliebri. E magari finissero qui le responsabilità dello Stato! Peraltro, soltanto nell’ultimo decennio le istituzioni pubbliche si sono organizzate con leggi e protocolli in sostegno concreto ai centri antiviolenza.

Ebbene, mentre finalmente entrava in sistema la rete di tali centri, mentre si affinavano sempre di più le sinergie tra gli enti locali, le forze dell’ordine e la magistratura, intervenne il governo Renzi con uno dei suoi primi colpacci di genio, ovvero con la legge 67 del 28 aprile 2014 che, secondo voi, quali reati andò a depenalizzare? Manco a dirlo, tutti quelli che consentivano l’inquadramento penale della violenza esercitata soprattutto su di una donna, che spesso costituivano l’unico campanello d’allarme annunziante il femminicidio: Atti persecutori (stalking), Esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza, Ingiuria, Interferenze illecite nella vita privata, Lesione personale, Minaccia, Percosse, Violazione di domicilio, Violenza privata.

Il nonsense fu che, appena un anno prima, il governo Letta aveva inserito con un decreto il reato di femminicidio nel nostro codice penale! Come dire che i governi, di Letta prima e di Renzi dopo, con una mano scrivevano il reato di femminicidio e con l’altra eliminavano i suoi presupposti penali… iniziava la crisi dissociativa del Pd.

Il discorso sulle responsabilità della classe politica in merito alla sostanziale disapplicazione degli articoli 3, 37 e 51 della Costituzione ci porterebbe molto lontano, perciò preferiamo soffermarci sulle strade che, secondo noi, si dovrebbero percorrere per riuscire ad inculcare nell’immaginario maschile quell’equilibrata percezione della donna che renderebbe del tutto inconcepibile il ricorso alla violenza nei suoi confronti, laddove si scambi un rapporto affettivo alla pari per una sorta di diritto di possesso.

Una di queste strade, se non l’unica, stante la progressiva disgregazione della capacità pedagogica della famiglia italiana, è la scuola. Essa ha la sua parte di colpe per il ritardo con il quale è stato affrontato lo specifico tema della violenza sulle donne. La scuola italiana, infatti, ancora non ha deciso se per i giovani sia più importante sapere oppure conoscere, a fronte del fatto che – oltre ad essere didatticamente più pagante – soltanto la conoscenza consente d’instaurare rapporti profondi ed equilibrati con tutto ciò che è “fuori di noi” e, quindi, anche con le donne.

Beninteso che sarebbe ingiusto ed ingeneroso addossare tutte le colpe di certe storture soltanto ai ritardi della scuola, ma è indubbio che dalla scuola si deve partire per sradicare quel revanchismo contro le donne che gli uomini si portano dentro fin dalla notte dei tempi. Un tantinello prima però dovrebbe venire la famiglia…